La nonna riceve la PENSIONE, i nipoti avranno l’ELEMOSINA. In mezzo ci sei TU!
E’ questo in sintesi il quadro che verrà illustrato dall’ INPS a tutti noi con la busta arancione. Lo scopo di questa doccia fredda “nero su bianco” ha lo scopo di sollecitare una più attenta gestione delle voci di spesa del nostro bilancio famigliare e personale, nel quale bisogna inserire la voce ACCANTONAMENTI PENSIONISTICI.
Lo Stato non sarà più cosi generoso come in passato nel garantire un adeguato tenore di vita al di sopra del livello di sopravvivenza, diventa chiaro che bisogna risparmiare oggi per la pensione di domani.
Quindi c'è bisogno di CONSULENZA FINANZIARIA per garantirsi la propria sicurezza PENSIONISTICA.
Ho raccolto alcuni articoli de La Stampa che offrono una panoramica attuale, e dei problemi futuri, legati alla gestione della nostra sicurezza economica in vista della pensione. Ringrazio gli autori e vi auguro buona lettura.
Pensioni e busta arancione: cinque cose da sapere
In arrivo il documento Inps con il precalcolo dell’assegno che riceveremo. Ecco cosa bisogna sapere sul tasso di sostituzione.
Il presidente dell’Inps Tito Boeri
31/03/2016
SANDRA RICCIO
MILANO
- Quando arriverà la busta arancione?
La busta arancione arriverà a tutti a casa ma con tempi diversi. Si inizia dalla metà di aprile con gli invii della missiva dell’Inps a 7 milioni di lavoratori del settore privato. Sono quelli che non hanno mai utilizzato il portale dell’Inps La mia pensione, dove comunque i dati contenuti nella busta arancione sono già disponibili. I lavoratori privati saranno i primi a sapere quale sarà il loro futuro pensionistico. Poi, nel corso del 2016, la busta arancione sarà inviata anche ai dipendenti pubblici e poi a tutti gli altri lavoratori.
2.Cosa conterrà?
Semplice e immediata, indicherà la data di accesso alla pensione, l’importo della pensione che riceverà il lavoratore il famoso tasso di sostituzione, vale a dire quanto ci mancherà, in percentuale, nella pensione, rispetto all’ultimo stipendio.
3. Quale sarà il tasso di sostituzione?
Per alcuni il livello potrebbe risultare anche al di sotto del 50%. E’ il caso per esempio di chi ha stipendi bassi e ha versato contributi a singhiozzo. In realtà i calcoli contenuti nella busta arancione sono legati anche ad alcune variabili come la crescita dell’economia italiana e l’inflazione: insomma non possono essere precisi al centesimo.
4.Chi rischia brutte sorprese?
E’ chiaro che, come già anticipato da Tito Boeri qualche mese fa, a rischiare di più saranno i più giovani che potrebbero trovarsi un giorno con pensioni da fame perché iniziano a lavorare molto più tardi rispetto ai loro genitori e perché, tante volte, si devono adattare a lavori saltuari. Vale lo stesso per le donne che molte volte interrompono il lavoro (e quindi i versamenti) per lunghe pause dovute alla maternità.
5. Perché l’Inps ha adottato questo strumento?
La busta arancione avrà l’effetto di renderci tutti più consapevoli sul futuro pensionistico che ci aspetta: l’obiettivo dell’Inps è mettere a disposisione uno strumento per programmare - almeno per quanto è possibile - il loro futuro. Nel caso di un tasso di sostituzione molto basso rispetto alle nostre aspettative occorrerà correre ai ripari, per esempio e potendo, con il versamento regolare di quote anche in un fondo pensione integrativo oppure con la costruzione di un piano di risparmio personalizzato, magari fai-da-te.
Inps: le pensioni sono più di 18 milioni, il 63% sotto i 750 euro
All’inizio del 2016 risultavano in essere 18,1 milioni di pensioni con «una forte concentrazione nelle classi basse» di importo. L’importo complessivo annuo risulta pari a 196, 8 miliardi di euro di cui 176 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali. Lo rileva l’Inps nelle statistiche in breve dell’Osservatorio delle pensioni che non considera però i trattamenti pubblici ed ex Enpals spiegando che il 63,4% degli assegni (11,5 mln) è inferiore a 750 euro. Per le donne gli assegni inferiori a 750 euro sono oltre i tre quarti del totale (il 77,1%). È solo una misura indicativa della povertà dato che molti pensionati hanno più di una prestazione o altri redditi.
Su 18.136.850 trattamenti esistenti a inizio 2016, 14.299.048 erano di natura previdenziale, «cioè prestazioni che hanno avuto origine dal pagamento di contributi (vecchiaia, invalidità a e superstiti) durante l’attività lavorativa del pensionato; le rimanenti,- spiega l’Istituto - sono costituite dalle prestazioni erogate dalla gestione degli invalidi civili (comprensive delle indennità di accompagno) e da quella delle pensioni e assegni sociali, sono di natura assistenziale, cioè prestazioni erogate per sostenere una situazione di invalidità congiunta o meno a situazione di reddito basso».
Il 45% delle pensioni di cui è titolare un uomo sono inferiori a 750 euro mentre è sotto questa cifra il 77,1% degli assegni la cui titolare è una donna. Se si guarda all’importo per le pensioni erogate a residenti in Italia (sempre escluse quelle pubbliche ed ex Enpals) pari a 192,6 miliardi l’Inps sottolinea che si tratta dell’11,6% del Pil con un calo rispetto all’11,7% dell’anno precedente.
La distribuzione territoriale mostra che l’Italia settentrionale usufruisce del maggior numero di prestazioni pensionistiche. Il 48,1% delle pensioni viene infatti percepito da residenti in questa zona e a loro è destinato il 54,9% delle somme stanziate a inizio anno. Il 19,2% delle prestazioni viene erogato nel Centro Italia, per un totale del 19,7% dello stanziamento, e il 30,5% nel sud e nelle Isole, cui è riservato il 24,7% della somma totale. Il restante 2,2% è rappresentato da pensioni erogate a residenti all’estero, cui è riservato lo 0,65% dello stanziamento.
L’età media dei pensionati è di 73,6 anni, con una differenza fra i due generi di 4,5 anni (71 anni gli uomini e 75,5 le donne). È da rilevare infine che l’età media alla decorrenza del pensionamento è in aumento, passando, per la pensione di vecchiaia dai 62,9 del 2010 ai 65,4 anni dei primi due mesi del 2016 e, per le pensioni di anzianità, da 59,1 anni a 60,6 nello stesso periodo.
L’anno zero delle pensioni è il 2030, quando gli assegni saranno a rischio
La Stampa ha analizzato le proiezioni di diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale. In un’Italia sempre più vecchia un milione di neo pensionati metteranno in pericolo i conti Inps
17/04/2016
GIACOMO GALEAZZI ILARIO LOMBARDO
ROMA
Nel 2030 il sistema pensionistico italiano potrebbe implodere. È uno scenario realistico, secondo le proiezioni che La Stampa ha analizzato assieme a diversi esperti, incrociando previsioni demografiche e studi sulla spesa previdenziale. Il 2030 non è una data a caso: è l’anno in cui andranno in pensione i figli del baby boom, cioè i nati nel meraviglioso biennio 1964-65, quando l’Italia nel pieno miracolo economico partorì oltre un milione di bambini. Quei bambini, al compimento dei 66-67 anni, busseranno alla porta dell’Inps. Un picco di richieste che si tradurrà in uno choc, soprattutto se la crescita economica rimarrà modesta. Il periodo più critico arriva fino al 2035. Poi, se le casse dell’Inps reggeranno, anno dopo anno la situazione dovrebbe migliorare per stabilizzarsi tra il 2048 e il 2060.
IL GIALLO DEI NUMERI
Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, fa professione di ottimismo e snocciola diagrammi che non vedono schizzare all’insù la spesa pensionistica in rapporto al Pil. Una risalita ci sarà, dopo anni di curva verso il basso, esattamente attorno al 2030. All’Inps, infatti, ammettono che «qualche problema potrebbe esserci fino al 2032, quando il sistema sarà tutto contributivo». Una fotografia che alimenta l’ansia se si pensa che è tra pochi anni e che stiamo ragionando in un sistema che è stato già stravolto dalla tanto detestata legge Fornero del 2011. Adesso che di pensioni si è tornato a parlare quotidianamente, con varie ipotesi di modifica per alleggerire la Fornero, c’è chi alza gli scudi e anzi dice che quella legge potrebbe non bastare.
Raffaele Marmo, collaboratore di Maurizio Sacconi e della stessa Fornero al ministero del Welfare, poi inventore della start up Miowelfare.it, racconta l’urgenza in cui maturò quella riforma e avverte: «Con la disoccupazione che abbiamo e la mancata crescita economica, in un’Italia sempre più anziana, l’Inps rischia di saltare entro 15 anni». Marmo è poco convinto anche delle previsioni di Boeri che sono alla base della Busta arancione, il prospetto che consente ai lavoratori di calcolare la pensione futura: «L’Inps presuppone il canonico 1,5% di crescita del Pil, ma chi l’ha detto che sarà così?». Nel 2015 l’Italia è rimasta inchiodata allo 0,8%, le recenti stime sul 2016 sono all’1,2% e il 2030, in un certo senso, è dopodomani. Servirebbe un nuovo miracolo.
IL PROBLEMA DEMOGRAFICO
Gian Carlo Blangiardo è ordinario di Demografia all’Università Bicocca di Milano. Ha appena rielaborato i dati Istat in uno scenario che svela un processo di invecchiamento inarrestabile con tutte le conseguenze che questo comporta sulla spesa previdenziale e le inevitabili ricadute sulle nuove generazioni. «Il rapporto tra la popolazione attiva (20-65 anni) e i pensionati si raddoppierà nel giro di una generazione. La percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37% di oggi al 65% nel 2040 (da 1 su 3 a 2 su 3)».
Questo significa: il doppio del carico previdenziale. A parità di condizioni, in pratica, servirebbe raddoppiare la produttività. I 16 milioni di pensionati di oggi aumenteranno fino a 20 milioni, in meno di 25 anni. «Tra i nuovi pensionati e chi muore, cioè tra chi entra e chi esce dal sistema previdenziale, c’è uno sbilancio che oggi è nell’ordine delle 150 mila unità. Nel 2030 salirà a 300 mila e resterà tale fino a circa il 2038». Poi comincerà a scendere il numero dei nuovi pensionati e ad aumentare quello dei morti. Magicamente, attorno al 2048, i due gruppi si equivarranno, finché, da lì a poco, non avverrà il sorpasso. La spiegazione è semplice. Dopo gli anni del boom demografico del 1964-65, l’Italia ha fatto sempre meno figli e nel 2015 ha toccato il nuovo minimo storico dall’Unità: 488 mila nati. Sono i pensionati del futuro, la metà di quelli che ci andranno tra 14 anni.
Il problema della sostenibilità delle pensioni si potrebbe risolvere demograficamente: «Sì - spiega Blangiardo - sempre che prima del 2050 l’Inps non scoppi». Una catastrofe nella quale l’Italia sarebbe già sprofondata se, come dice la Corte dei Conti, non ci fossero state le riforme dal 2007 al 2011: la spesa per le pensioni sarebbe stata superiore di ben 2 punti di Pil, cioè 30 miliardi di euro l’anno per altri 15 anni.
Le statistiche però devono anche fare i conti con la vita quotidiana e le sempre minori certezze di chi in pensione andrà nel 2030, come Sergio Bucciarelli, baby boomer, oggi 51enne, impiegato a Fabriano in una ditta di cappe aspiranti. «Lavoro ininterrottamente dal marzo 1989 e guadagno 2 mila euro al mese - racconta -. La mia pensione sarà il 60% dello stipendio quindi da vecchio stringerò la cinghia. Non potrò aiutare i miei figli e se avrò problemi di salute non potrò curarmi al meglio». Già oggi, secondo l’Inps il 63% degli assegni è fermo sotto i 750 euro al mese
Sui numeri complessivi del sistema, che è ancora misto (retributivo e contributivo), e sulla sua tenuta ci sono letture divergenti. Chi, come gli artigiani di Mestre (Cgia) dice che nonostante gli sforzi la spesa pensionistica è sfuggita alla spending review ed è salita solo nell’ultimo anno di 3,1 miliardi. E chi propone invece di allentare le rigidità della Fornero attraverso varie ricette. Per esempio,la flessibilità in uscita: è il cuore di due proposte, una di Boeri, l’altra del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, Pd, ex ministro autore della riforma del 2007. La prima prevede fino al 9% di decurtazione e un’uscita dal lavoro dai 63 anni e 7 mesi in poi con disincentivi. Applicandosi solo alla quota retributiva, se quest’ultima scende la penalizzazione è minore (4,5%). Per le coperture, Boeri ha pensato a un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte. Damiano, invece, propone di uscire anche un anno prima (62 anni e 7 mesi) con un taglio del 2% l’anno fino a un massimo dell’8%.
Entrambe le soluzioni si basano sul presupposto che i costi a breve saranno compensati dai risparmi futuri. Ma nessuna delle due convince Giuliano Cazzola, economista, tra i massimi esperti di previdenza, strenuo difensore della Fornero: «Ci vorrebbero 50 anni per ammortizzare queste operazioni. Non peggiorerei le cose e comincerei a pensare ai giovani e agli occupati, che sono la classe contributiva, purtroppo ancora debole, del futuro».
Il conflitto tra generazioni è già in corso. Se n’è accorto Ivan Pedretti, segretario generale dei 3 milioni di pensionati della Spi-Cgil che di fronte all’inevitabilità della Fornero è convinto che la soluzione non sia la sua totale abrogazione, ma correttivi precisi. Come sui lavori usuranti e ancor di più sui requisiti anagrafici agganciati alla speranza di vita: «Se il contributivo nasce con la logica del “prendo quanto verso”, non spetta allo Stato decidere quando mandare in pensione il lavoratore. Permettete che lo decida lui?». In effetti è un paradosso. Però Pedretti fa anche mea culpa: «Anche noi abbiamo permesso una transizione troppo lungo dal retributivo al contributivo». Il tabù Fornero deve essere affrontato senza ideologismi. Anche secondo Cazzola è necessaria una rivalutazione dei requisiti anagrafici legati all’aspettativa di vita. «Altrimenti, si arriverà a 45 anni di contributi». L’Italia è già in cima alla classifica Ue delle soglie stabilite per la pensione, però è di ben 5 anni sotto la media europea per la permanenza sul mercato del lavoro (10 in meno rispetto all’Olanda). Un divario che per le donne è inequivocabile: la durata media è sotto i 25,5 anni.
Il Paese sconta una storia nota, di privilegi e pensioni usate come arma politica, che ancora pesa sui conti e trasferisce sui più giovani un carico insopportabile. «Sì, ma bisogna stare attenti - continua Cazzola - siamo l’unico Paese che usa il sistema pensionistico per fare politiche occupazionali». Il riferimento è a uno studio di Boeri presentato alla Bocconi a gennaio che lega la riduzione delle assunzioni al forte aumento dell’età pensionabile imposto dalla Fornero. «Se la quota di posti bloccati è al 5% - sostiene Boeri - il tasso di assunzioni scende al 6%». E così via. In una situazione di crisi economica, la convinzione del presidente dell’Inps è che il turnover potrà far crescere occupazione e produttività.
FISCO E IMMIGRATI
Una delle proposte alternative che si sta facendo largo ribalta l’impostazione sulle pensioni. Da un sistema previdenziale a uno più assistenziale finanziato in parte dalla fiscalità generale. In commissione Lavoro alla Camera giace una proposta di legge a firma Marialuisa Gnecchi (Pd) che prevede una pensione di base di 442 euro, a cui si aggiunge quella maturata dal lavoratore con il contributivo. Sarebbe un salto culturale verso un sistema che tiene conto del mercato del lavoro di oggi e di domani. È uno sforzo che chiedono anche i fiscalisti italiani. Tra loro, Raffaello Lupi, docente di diritto Tributario: «Bisogna inventarsi un nuovo welfare. La gestione della terza età si deve trasformare in una delle tante funzioni pubbliche, come sanità e istruzione».
Gli over 95 passeranno dai 150 mila di oggi a quasi 1,3 milioni del 2063. Alla flessibilità in uscita vanno affiancate formule di pensionamento attivo. Il demografo Blangiardo ha calcolato che se fossero valorizzate le persone tra i 65 e i 75 anni, con un attività light capace di essere monetizzata in 5 mila euro l’anno di media, avremmo tra il 2016 e il 2020 33 miliardi di euro in più ogni anno, tra il 2021 e il 2040, 40 miliardi. C’è chi guarda con speranza anche a chi arriva da fuori. È il fattore immigrazione che spacca l’opinione pubblica e anche gli studiosi. È un’ancora di salvezza o un’ulteriore zavorra? Blangiardo lo chiama «invecchiamento importato» convinto che i giovani immigrati diano solo una boccata di ossigeno ai conti dell’Inps con i loro contributi, ma che non siano una soluzione definitiva al calo della popolazione attiva, «perché anche loro invecchieranno e riceveranno in cambio la pensione».
Boeri invece sostiene che il loro aiuto sia determinante. In futuro, quando varrà solo il sistema contributivo, il riequilibrio coinvolgerà anche gli stranieri che prenderanno quanto versato. Intanto, l’Inps calcola che il 21% degli immigrati già in pensione secondo le regole italiane, e che in gran parte tornato nei Paesi d’origine, non ha ricevuto gli assegni previdenziali. Un tesoretto di contributi lasciati all’Italia di 16 miliardi di euro. In vista del 2030, non si butta via nulla.
Mezzo milione di italiani in pensione da 36 anni
Boeri (Inps): un contributo di solidarietà dagli assegni più alti. Il ministro Poletti frena: su questo versante non c’è nulla
I dati. Secondo le tabelle Inps su 500mila persone in pensione prima del 1980, circa 188mila sono pensioni di vecchiaia e altre 286mila sono gli assegni dei superstiti
04/04/2016
FRANCESCO SPINI
MILANO
Erano già pensionati nel 1980. C’è un esercito di quasi 500 mila persone che, in Italia, da più di 36 anni campa con l’assegno dell’Inps. Il numero emerge dalle tabelle dell’Osservatorio pubblicato dall’Istituto di previdenza, in cui si vede come ci sono 188.436 pensioni di vecchiaia (riferite al solo settore privato, escludendo quindi anche le baby pensioni che si riferiscono al settore pubblico) che presentano una decorrenza anteriore al 1980. Del resto l’età media al momento della prima pensione è piuttosto basso: 54,9 anni. Le pensioni dei superstiti, come quelle dovute alla reversibilità del coniuge, sono altre 286.542 con un’età alla decorrenza ancora più bassa, a 41,35 anni. In tutto, sono 474.978. Ci si può divertire coi numeri di questa tabella: se ad esempio si restringe il campo a 30 anni fa il numero cresce a 809 mila pensioni più 527 mila e passa assegni per superstiti. Chi si diverte meno è il presidente dell’Inps, Tito Boeri. Da Vicenza, dove ha partecipato al Festival CittàImpresa, ha riproposto una possibile soluzione: «Siccome sono state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti - ha detto l’economista -, credo che sarebbe opportuno andare per importi elevati a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per facilitare e rendere più facile anche a livello europeo questa uscita flessibile».
Ritorna dunque lo spettro del contributo non solo per i pensionati che hanno gli assegni più generosi (ci sono oltre 320 mila posizioni che mensilmente ricevono oltre 3 mila euro) ma anche per chi ha smesso di lavorare da molti anni. «Abbiamo formulato delle proposte molto articolate - ha spiegato Boeri - , che guardano all’età, alla decorrenza della prima pensione». Perché secondo il presidente Inps occorre «sempre guardare da quanto tempo vengono percepiti questi importi». Che possono essere anche limitati «ma se uno li ha percepiti da quando aveva meno di 40 anni, chiaramente cumulandosi nel tempo vengono a stabilire un trasferimento di ricchezza pensionistica considerevole». I pensionati italiani hanno un età media di 73,6 anni, 14,2 milioni (pensioni di natura previdenziale) fanno capo all’Inps. Rispetto al passato l’età della pensione si è alzata anche se, tra quelle vigenti, ci sono ancora 102 pensioni di vecchiaia corrisposte a persone tra 40 e 49 anni.
Il governo però non sembra voler correre il rischio di scatenare scompiglio tra i pensionati vecchi e nuovi. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, esclude che il governo stia considerando contributi di solidarietà. «Oggi su questo versante non c’è nulla», ha detto. «Il contributo di solidarietà oggi sulle pensioni alte c’è già, è a scadenza, dovrà essere valutato se confermarlo in quella maniera o diversamente, ma non credo che ci sia nulla allo studio».
E poi, ha aggiunto il ministro, tali temi «vanno valutati concretamente se e quando ci sono le condizioni, altrimenti facciamo atti che preoccupano le persone senza poi produrre nulla». Secondo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, il tema vero, in questo campo, «è di introdurre flessibilità senza tornare indietro rispetto all’equilibrio finanziario e di equità tra le generazioni che già c’è nel nostro sistema pensionistico».
Il giro di vite sulla previdenza d’oro non compensa l’uscita in anticipo dal lavoro
Il piano di Boeri: «Reddito minimo agli over 55 col taglio delle pensioni a 250mila ricchi». Nel mirino gli ex statali, privati e autonomi con redditi 7 volte sopra i minimo Istat.
06/11/2015
PAOLO BARONI
ROMA
Quanto costa il piano-Boeri? E soprattutto, chi paga? I primi undici articoli del ddl messo a punto dal presidente dell’Inps, tra riordino delle prestazioni legate al reddito e nuovi sostegni a favore degli over 55, producono un risparmio stimato in 408 milioni per il 2016 che tra alti e bassi sale sino a 750 del 2025. Di contro il pacchetto pensioni, in cui sono inserite anche i maggiori costi per la flessibilità in uscita (con penalizzazioni dall’1,5 al 9,4%) e l’unificazione dei trattamenti, nonostante il ricalcolo dei trattamenti più ricchi produce un miliardo e 70 milioni di maggiori costi nel 2016, che poi salgono a 2,6 nel 2017, a 3,65 nel 2018 e a 4,3 nel 2019-2020.
Il saldo finale vale così 662 milioni il prossimo anno 1,65 miliardi nel 2017, 3,2 nel 2018 e 3,8 nel 2019 e nel 2020. «Le misure in campo previdenziale - precisa la nota Inps - hanno una copertura strutturale e portano a ridurre il debito pensionistico di circa il 4%. Tuttavia comportano nei primi anni saldi negativi rispetto alla spesa tendenziale». Cifre importanti, insomma. Tant’è che l’Inps suggerisce di conteggiare i risparmi prodotti dal turn over nella Pa e di introdurre piccoli correttivi tecnici allo scopo di ridurre l’esborso ad appena 150 milioni per il 2016, 1 miliardo per il 20017, 2,5 miliardi per il 2018 e 3 nel 2019-2020.
TAGLI PER 560 MILA
Una parte consistente, dunque, dovrebbe sempre arrivare dallo Stato, ma una quota comunque importante verrebbe ricavata sforbiciando le pensioni più alte. Riordinare l’assistenza a favore degli over 65, ad esempio, significa intaccare i redditi di circa 560 mila persone, la maggior parte provenienti dal 10% più ricco della popolazione. Tra questi il 50% perderebbe ogni anno al massimo 1.428 euro (il 25% meno di 457 l’anno), mentre i più «sfortunati» dovrebbero rinunciare al massimo a 2.700 euro.
ASSEGNI D’ORO DECURTATI
La manovra sulle pensioni d’oro, ovvero quelle che superano sette volte il minimo Istat, invece interessa in tutto 326 mila assegni percepiti da 250 mila persone che in media ogni mese ricevono 4.500 euro. Sono per l’80% uomini, localizzati in prevalenza al Nord e nel Centro Italia. Parliamo di 202mila assegni d’importo compreso tra 3.500 e 5.000 euro, di 99.404 assegni che vanno dai 5 ai 7.000 euro e di 24.491 pensioni sopra quota 7mila. Ben 130.509 fanno capo all’ex Inpdap (dipendenti pubblici), 106.818 appartengono al fondo lavoratori dipendenti e 68.921 alle contabilità separate. Il risparmio complessivo, per effetto del ricalcolo attuariale, sarebbe di 2,35 miliardi rispetto al 2015 e corrisponde ad un taglio medio del 12,6%. Dal fondo ex Inpdap arriverebbe oltre un miliardo di euro, 610 milioni dal Fondo lavoratori dipendenti, 633 dalle contabilità separate, 76,9 dagli autonomi ed infine 22 milioni da ferrovie, poste, ecc.
LA SCURE SUI VITALIZI
Ben altra cura toccherebbe invece ai vitalizi dei politici: in media il taglio sarebbe del 33,9% oscillando dal 2-3% delle fasce di reddito più basse (42-53 mila euro) per arrivare al 50% ed oltre degli assegni che superano la soglia dei 63.700 euro. Anche le pensioni dei sindacalisti con distacco (o aspettativa) dal settore pubblico verrebbero «livellate» allineando le loro regole a quelle di tutti i normali lavoratori.
Financial Advisor Mediobanca Premier
8 anniKatia, io ho due figli e non me la sento di pensare per loro ad un' elemosina quando verrà il loro momento della pensione. Penso piuttosto a come porvi rimedio, per esempio insegnando loro a gestire il denaro riservando alla pensione un accantonamento più importante di quanto non abbia fatto io e la mia generazione. Questo indipendentemente dagli interessi che oggi il mercato può garantire.
Financial Advisor Mediobanca Premier
8 anniPaola Angelucci guardare in faccia la realtà non vuol dire accettare senza lottare ciò per noi è già stato scritto. Ho letto il riepilogo del tuo profilo, sono pochi quelle che come te individuano soluzioni belle e semplici. Forse, se non è lo stato, possiamo essere noi a trovare risorse per vivere come desideriamo...anche in pensione.
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8 anniIn mezzo a morir di fame...zi zi