La perdita dell’industria Italiana, Il fallimento di un’intera classe dirigente….

La perdita dell’industria Italiana, Il fallimento di un’intera classe dirigente….


Molto spesso ci chiediamo quali siano i processi e i percorsi che possano determinare gli effetti, anche catastrofici, di eventi e situazioni….

Come ha fatto l’Italia delle “grandi speranze” degli anni ’70 e del boom industriale, ad arrivare a questo punto di decadimento e impoverimento? Manifattura, ricerca, competenza, innovazione, orgoglio, attaccamento alle proprie radici…...ci contraddistinguevano.

Il grafico che ho preparato di seguito riporta i dati di ripartizione della forza lavoro per settore nel cinquantennio ’51 - 2001 e credo si auto esplicativo. 


Siamo diventati un paese che si occupa quasi esclusivamente di trasporti, comunicazioni, servizi commerciali, assicurazioni, banche, turismo, attività amministrative, informazioni, consulenze, servizi alla persona, etc…

Cosa produciamo…..?? Quasi nulla ormai, siamo riusciti a far scappare anche la FIAT, nata e cresciuta nel periodo della guerra come principale fornitore dello Stato, diventata poi grande nel periodo post-bellico, infine sostenuta a piene mani dallo Stato per decenni. Si dice che un paese “giri” bene quando il settore Automotive ed Edilizio “girano” bene in quanto riescono ad innescare un indotto molto importante grazie al coinvolgimento multidisciplinare dei settori stessi.

Quali sono state le fasi dello sviluppo industriale Italiano? In breve cerco di riassumere:

I fase: metà anni ’50 - 1968

Scelte in favore dell’integrazione Europea dovute alla forte domanda estera e allo sviluppo dell’industria manifatturiera.

Ampliamento degli impianti industriali per sopportare le richieste produttive. Ricerca di manodopera non qualificata. In questa fase industriale il settore produttivo si basa sull’idea della “Grande Fabbrica”; produzione in serie di prodotti poco differenziati; salari bassi. Le campagne si svuotano alla ricerca del mito del lavoro in fabbrica.

II fase: 1968 - 1980

In questa fase si iniziano a generare situazioni di insofferenza delle grandi classi operaie, i bassi salari e le condizioni di lavoro spingono a processi di “sindacalizzazione” e “rivendicazione” aziendale.

Il sistema produttivo non è più adeguato alle esigenze del mercato e dei produttori stessi: il consumatore tipico cambia caratteristiche; l’effetto del reddito spinge verso una differenziazione; l’offerta produttiva non è in grado di colmare le richieste; si sviluppa un senso di insoddisfazione; manca inoltre un adeguato supporto tecnologico che possa garantire maggiore flessibilità.

Siamo nella fase che porta alla creazione dei cd “distretti industriali”. Si passa da quello che era definito “triangolo industriale” Milano-Torino-Genova, tipico degli anni ’60-’70, ad una più diffusa industrializzazione di centri minori (indotti dalla grande industria), che si specializzano in attività mirate e specifiche. Si tratta di una fase cruciale in quanto si genera il tessuto delle migliaia di piccole e medie imprese Italiane che caratterizzeranno il futuro industriale nazionale.

III fase: 1980 - 1990

In questa fase il fattore critico è il “contesto tecnologico” di forte innovazione (elettronica, automazione, informatica). Il passaggio è dalle tecniche “labour intensive” a quelle “capital intensive”. Si necessita così di meno manodopera, ma maggiormente qualificata e si introduce maggiore flessibilità in azienda.

Le caratteristiche principali di questa fase sono: ridimensionamento dei settori di base; crescita importante del settore terziario; globalizzazione dei mercati; cresce il ritmo di obsolescenza degli impianti produttivi.

IV fase: 1990 e oltre

Siamo nella fase di consolidamento di quanto si riscontra in seguito nel tessuto industriale italiano: ristretto gruppo di grandi imprese (elite); un buon numero di imprese di medie dimensioni settorializzate; un’enorme massa di piccole imprese.

La struttura così definita non è stata in grado di poter sostenere i forti scossoni delle crisi economiche, ultima quella del 2008. I grandi sopravvivono grazie al sostegno di Stato e Banche, decentrano, lasciano il paese per migrare laddove “costa meno”; le medie imprese settorializzate che sono sopravvissute grazie a forte capacità di innovare ed essere flessibili; le piccole imprese, spesso con difficoltà di accesso al credito (maggiormente orientato verso i “big”), sono state falcidiate.

I dati del PIL Italia sono impietosi:

1975-1985 3%

1985-1990 2,9%

Anni ’90 1,6%

200-2004 0,9%

Ultimo decennio intorno allo 0%

Dal 1960 il nostro paese ha perduto o ridimensionato drasticamente la propria capacità produttiva in settori industriali nei quali aveva occupato a lungo un posto di primo piano a livello mondiale: Informatica, Chimica, Farmaceutica; Elettronica di consumo (costituita da Apparecchi Radio, Televisori, H.F, Registratori audio e video); Aeronautica civile; High Tech (automazione e controllo, sistemi per la distribuzione e trasporto di energia).

Rimaneva un’ultima struttura portante della grande industria nazionale, cioè la Fiat, ma sappiamo che fine abbia fatto.

Abbiamo abbandonato settori produttivi nei quali la nostra industria è stata tra i primi nelle classifiche internazionali. Come e perché siamo arrivati a tanto? La domanda chiama in causa la classe imprenditoriale/manageriale industriale nazionale; la classe politica (in primo luogo di governo); la classe finanziaria del nostro paese.

La situazione odierna è descritta da alcuni indicatori. Nell’elenco delle prime 500 società del mondo per fatturato pubblicato da Fortune, l’Italia è sostanzialmente assente dal punto di vista industriale (assicurazioni generali si attesta intorno al 57°posto, ma di industriale ha ben poco). Pensiamo ad una Volkswagen che si attesta al 9° posto, nell’intorno dei colossi del petrolio. Non vi compare alcuna azienda chimica italiana che intorno al 1960 era tra le prime del mondo. Neanche un’azienda farmaceutica italiana nell’elenco di Fortune, né nel campo dell’elettronica di consumo, dell’aeronautica civile, dell’auto. La settima economia del mondo pare essere diventata da tempo un nano industriale.

E’ diffusa un’opinione radicalmente infondata per la quale l’economia industriale appartiene al passato. Il presente, e ancora più il futuro, saranno postindustriali e dominati dall’economia dei servizi.

Ebbene, guardando alle 500 prime società del mondo compilato da Fortune, delle prime 20 corporation per fatturato compaiono 4 big dell’auto (VW, Toyota, Daimler, GM), 5 big del petrolio, che non esisterebbero senza l’impresa manifattureria.

Sotto il profilo dell’occupazione l’industria ha rilevanza sia per i dipendenti diretti che per quelli dell’indotto industriale. Ogni singola azienda industriale, oltre ad avere processi produttivi mediamente ad alta intensità di lavoro, nonostante l’automazione e la robotica, genera attorno a sé una quantità di posti di lavoro più elevata a paragone delle aziende del terziario aventi dimensioni simili, perché acquista dall’esterno una immensa quantità di merci, dalle materie prime ai semilavorati e ai componenti finiti, oltre ad ogni genere di servizi.

I fornitori di merci delle sole imprese manifatturiere comprese nei top 500 di Fortune sono centinaia di migliaia, distribuite in tutto il mondo, con decine di milioni di dipendenti. Nel solo comparto dell’auto circa due terzi di ogni veicolo, in valore, sono prodotti nei distretti della componentistica. Ciò significa che per ogni lavoratore presente negli impianti di Gm e Ford, Wolkswagen e Fiat ce ne sono altri due che lavorano da qualche parte alla produzione di componenti.

Altrettante sono le aziende che forniscono loro servizi, dai sistemi informativi alla manutenzione di macchine e impianti, dalla contabilità alla logistica, dalla formazione alla pubblicità.

In conclusione l’Italia è fallita industrialmente a causa di un’incapacità manageriale, mancanza di lungimiranza, incapacità di analisi strategica, mancanza di flessibilità e spirito di adattamento, speculazione….

Un danno diffuso alle nostre generazioni e a quelle dei nostri figli e probabilmente non solo…….!!

Salvatore Aloisio

Head of Project Management & SCM - DZ Energy Industries presso ABB

6 anni

Interessante e deprimente...

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