La scommessa finanziaria neoclassica non vinta dei PIR e la prossima prevedibile rivincita neokeynesiana dei CIR (Conti Individuali di Risparmio)
A cura di Massimo Talone Vicepresidente Commissione Finanza Aziendale e Controllo di Gestione ODCEC di Milano e membro del CNDCEC - Gruppo di Lavoro Programma di valutazione del rischio di crisi aziendale delle società a partecipazione pubblica e indicatori di valutazione
In due miei precedente articoli, “Con i PIR guadagna solo il gestore. Ancora una volta diffidare dai falsi miti che non creano reale ricchezza (Prossima puntata Industria 4.0)” (M. Talone, 20.3.2018) “Perché i PIR (Piani Individuali d’Investimento) rimangono solo un prodotto (costoso) di asset management e non sono uno strumento di politica economica per le PMI”(M. Talone, 5.5.2018), avevo già espresso più di una perplessità sulla capacità dei PIR (Piani Individuali d’Investimento) di costituire un adeguato strumento di politica economica capace di sostituire o integrare il tradizionale credito bancario quale canale primario di approvvigionamento finanziario.
L’articolo pubblicato oggi domenica 23.9.2018 su “Il Sole 24 Ore” dall'emblematico (quanto sconfortante) titolo “PIR, scommessa vinta ma le PMI restano al palo” ha confermato il mio scetticismo, surgelando la tesi di coloro (insigni economisti) che perseguono la teoria del “te l’avevo detto”.
Ma al di là della facile retorica, cerchiamo di comprendere le ragioni di questo flop annunciato.
Innanzitutto, come sempre, qualche numero per comprendere la portata del fenomeno analizzato.
Come riportato dallo stesso articolo del “Il Sole 24 Ore”, dalla sua introduzione, avvenuta con la legge di bilancio 2017, lo strumento ha canalizzato 19 miliardi di risparmio gestito, di cui 14,4 miliardi raccolti nell'ultimo anno e mezzo.
Nonostante, dal punto di vista dell’industria dell’Asset Management (in primis, Gruppo Mediolanum, Gruppo Intesa, Erizon, Fideuram e Amundi group) la “scommessa” è stata certamente vinta, andando anzi oltre le più rose aspettative dei gestori, sul piano dell’afflusso di capitale alle PMI, lo strumento si è dimostrato del tutto inconsistente.
In particolare, sull’AIM sono affluiti solo 2,6 miliardi (fonte: CFO SIM) ma gran parte dei fondi è rimasto “parcheggiato” su veicoli di finanza speculativa (le c.d. SPAC costituite dai soliti noti).
Al netto di questi, l’ammontare delle azioni emesse è stato pari a 333 milioni e non tutte sottoscritte attraverso i PIR: quest’ultimo è stata circa il 40% ovvero solo un misere 133 milioni di euro, pari allo 0,7% del patrimonio gestito con questo strumento.
Come convintamente ha dichiarato Anna Gervasoni, direttore generale di AIFI - Associazione Italiana del Private Equity, “neanche un euro è finito nelle casse delle imprese non quotate attraverso strumenti di private equity”. Proprio un bel risultato di politica economica!
Alla luce di questi dati sarebbe forse necessario adottare maggiore prudenza nel considerare “concluso” il ruolo del sistema bancario quale cinghia di trasmissione fondamentale per il finanziamento (e quindi la sopravvivenza) delle PMI italiane.
Ma quali sono le ragioni economiche di questo clamoroso insuccesso?
Per comprenderle a pieno senza incorrere in superficiali considerazioni bisogna richiamare un po’ di teoria economica.
Il problema si chiama ASIMMETRIA INFORMATIVA e il massimo esponente economico che ha cercato di comprenderne l’influenza sul credito e sul mercato dei capitali (almeno in tempi recenti per non scomodare Keynes) si chiama Joseph E. Stiglitz (Nobel per l’Economia 2001).
In particolare, in due famosi saggi, scritti a quattro mani con due suoi collaboratori Weiss (Il razionamento del credito in mercati con informazione imperfetta) e Greenwald (Imperfezioni dei mercati finanziari e ciclo economico), Stiglitz dimostra come la carenza di informazioni associata alla imperfezione naturale dei mercati porti al razionamento finanziario (rispettivamente del credito e del capitale azionario).
Così come le banche, in presenza di carenze informative prodotte dalle imprese, nella impossibilità di ricostruire adeguatamente il loro profilo di rischio e conseguentemente la probabilità d’insolvenza da cui deriva la stima della perdita attesa, in situazioni di crisi economica o in fasi di economia stagnante (come l’attuale) non sono disposte a fare credito in misura pari alla domanda (razionamento del credito), allo stesso modo si comportano gli investitori di equity sui mercati dei capitali (razionamento azionario).
In mancanza di informazioni adeguate (carenza tipica del nostro sistema imprenditoriale) i soggetti deputati ad investire in capitale di rischio (fondi, e società di private equity e venture capital) come suol dirsi “tirano i remi in banca” e parcheggiano il loro denaro su strumenti finanziari di cui è possibile profilare efficientemente il rischio (quindi, si badi bene, paradossalmente anche più rischiosi dell’investimento in PMI).
Ed allora, qual è la soluzione?
Convincere le nostre imprese (meglio sarebbe dire, i nostri imprenditori) che produrre informazioni affidabili, saperle gestire e comunicarle efficientemente agli stakeholder (in primis, banche ed investitori in equity) ha sicuramente un costo (il costo dell’informazione indicato da Stiglitz) ma che rinunciare ad esse significa condannarsi all’eterna precarietà finanziaria, ad una sotto-capitalizzazione strutturale non in grado di coprire il costo per il rischio d’impresa (economic capital) ed inesorabilmente ad un ruolo marginale (le imprese marginali di Keynes) prodromico alla scomparsa dal mercato.
Senza risolvere questo basilare problema ogni tentativo di diversificare le fonti di finanziamento con nuovi entranti non bancari (Fintech) si risolverà (come per i PIR) nell'ennesimo flop. Mode, come ahimè la Storia insegna, dal breve destino.
La stessa (mala sorte) toccherà anche ai CIR (Conti Individuali di Risparmio) preannunciati dal nuovo Governo, finalizzati all'investimento in titoli di Stato e che probabilmente faranno la loro comparsa con la nuova legge finanziaria?
Probabilmente no. Ma le ragioni (neokeynesiane) di questa mia convinzione saranno oggetto del mio prossimo articolo.
Assisto Gruppi familiari nei rapporti intergenerazionali, governance e sviluppo aziendale
6 anniOttimo articolo. L’aspetto veramente critico secondo me è che la recente prolungata crisi di fiducia del sistema finanziario ha reso la stima del rischio d’impresa troppo sbilanciata sulla componente legata all’orizzonte temporale, eliminando dal tavolo il cosiddetto “lungo periodo” a favore di aspettative di 5-7 anni che forse rendono più attendibile una stima del rischio ma escludono dal tavolo una bella fetta di iniziative.