Le playlist sono i nuovi album
Come funziona il sistema di attribuzione dei diritti d’autore per Spotify e Deezer
“Sta roba che cinque anni fa era già vecchia ora sembra avanguardia e la chiamano It-pop […] siamo schiavi dell’hype / non si vendono più i dischi tanto c’è Spotify”
Willie Peyote – Mai dire mai (La Locura) – Festival di Sanremo 2021
Il mondo della musica è cambiato radicalmente dall’ingresso nel mercato delle piattaforme di streaming musicale: Spotify, Apple Music, Amazon Music e YouTube hanno influenzato e cambiato il sistema tradizionale della musica rendendolo più accessibile, ma anche più basato sul concetto di viralità.
Avevo poco più di 20 anni, nel 2016 partivo per l’Erasmus e ascoltavo I Cani, Coez e Calcutta. Allo stesso tempo, la community di Hipster Democratici, uno spazio semi-serio di musica indie e di meme sulla politica di cui faccio parte, con la campagna #EhiSpotify chiedeva alle piattaforme di streaming musicale (come Spotify, appunto) di svelare chi decide l’ingresso di un pezzo nella playlist Indie Italia, una delle playlist più seguite sulle piattaforme in streaming del nostro paese.
Dopo anni di meme al riguardo, nel 2020 mi sono ritrovato a pormi questa domanda (meno goliardicamente) in occasione della mia tesi magistrale: a Venezia dove frequentavo il corso di Management all’Università Ca’Foscari mi è stato proposto di indagare le piattaforme di streaming musicale e cosa è cambiato nell’industria culturale e creativa della musica con la loro predominanza.
Ho provato a rispondere a queste due domande:
- Quando ascoltiamo i nostri artisti preferiti sulle piattaforme di streaming musicale, li stiamo veramente supportando economicamente?
- Qual è il ruolo delle piattaforme di streaming musicale oggi, e come influenzano l’industria culturale e creativa della musica?
Spotify ha la quota di mercato più alta – circa il 40% nel nostro paese – e quindi la mia ricerca si è, volente o nolente, concentrata su questa piattaforma.
Spotify ha creato un ecosistema in cui la playlist è considerata “erede” dell’album, e quindi il nuovo principale metodo di fruizione di musica. Su questa piattaforma sono presenti tre tipologie di playlist, suddivise in base alla loro origine.
Generate da utenti fisici. Un esempio sono le nostre playlist collaborative, create da noi inserendo le canzoni manualmente, dopo aver chiesto ai nostri colleghi le canzoni da inserire per allietare i nostri smart-working o lieti eventi (Benvenuta Agatha!). Se sono create da un esperto (o meno) dell’ambito della musica, possono anche essere definite editoriali;
Generate da algoritmi. L’esempio più conosciuto è Discover Weekly, una playlist settimanale che Spotify propone ad ogni utente per far scoprire nuovi artisti: in base a ciò che ogni utente ascolta, la piattaforma genera playlist dedicate e ispirate alle sue abitudini d’ascolto.
Generate da Spotify: playlist algotoriali – un neologismo che indica che quella selezione musicale è una combinazione di una playlist algoritmica e una playlist editoriale. Un editore cura la selezione dei brani e degli artisti da inserire in queste playlist e queste, in seguito, saranno modificate da un algoritmo nell’ordine e nell’entrata di nuove canzoni. Tra queste: la già citata Indie Italia.
L’ecosistema di Spotify è basato su un sistema di attribuzione dei diritti d’autore “service-centered”: i fondi destinati ai diritti d’autore sono suddivisi percentualmente sulla base degli ascolti di ogni singolo autore, di conseguenza Spotify paga di più gli artisti con canzoni più virali, quindi che hanno più ascolti.
Qui sotto, nella grafica, è mostrato come funziona il sistema di attribuzione dei diritti d’autore di Spotify e della maggioranza dei servizi in streaming.
deezer.com/ucps
In realtà, questo non è l’unico sistema di attribuzione dei diritti d’autore: altri player del campo dello streaming, come per esempio Deezer, hanno un sistema “user-centered”: la quota di ogni utente va direttamente agli artisti che ascolta.
deezer.com/ucps
In questo modo, con il business-model di Deezer, gli artisti di nicchia con fan molto affezionati avranno più sostenibilità economica nella loro attività creativa.
Il business model preponderante, però, in questo sistema di musica in streaming è quello di Spotify. La viralità è il fattore fondamentale sul quale molto spesso si basa l’intera attività musicale di un artista, proprio perché è solo grazie a questa che è possibile ottenere una sostenibilità economica.
E come si fa a diventare virali? In tre modi, principalmente.
Seguendo i trend dei social media. Per esempio, sfruttando l’onda virale positiva di un trend di TikTok, come è accaduto per Laxed – Siren Beat, che da sconosciuta canzone pensata da JAWSH 685 per sostenere le Isole Samoa, sua terra d’origine, è entrata nella Billboard Top 100 al primo posto nel 2020 (riadattata poi da Jason Derulo) grazie a una challenge di TikTok.
Una comunicazione virale e frequente da parte degli artisti. Oggi gli artisti devono dedicare una grossa fetta del loro impegno alla creazione dell’hype sulle nuove uscite, cioè devono lavorare moltissimo alla promozione del proprio lavoro creando attesa nei fan. In più, sono indotti a pubblicare nuove canzoni e nuovi lavori sempre più spesso per raggiungere viralità. Questa tendenza si ripete sia negli artisti mainstream, che in quelli di nicchia.
Essere presenti in playlist algotoriali importanti. Entrando nella playlist Indie Italia, l’artista raggiunge 380mila ascoltatori italiani. Gli artisti modificano la loro produzione creativa con la speranza di diventare virali ed essere inseriti dai gatekeepers nelle playlist. Come? In due modi: riducendo la durata della canzone e anticipando il ritornello. Alcuni brani intramontabili (come Where The Streets Have No Name degli U2) della fine degli anni ’80-inizio ’90 duravano ben 5 minuti, cominciando anche con pezzi strumentali di 2 minuti. Oggi una canzone come Belve di Gazzelle, famoso artista dell’orbita della playlist Indie Italia, dura meno di due minuti in totale.
Quali sono i motivi dietro questo cambiamento?
Una canzone di due minuti guadagna tanto quanto una canzone che dura il triplo, sulle piattaforme in streaming. Gli artisti oggi modificano la loro produzione creativa per andare incontro alle logiche di mercato – cosa che in qualche modo è accaduta anche in passato.
Ma se oggi bastano 15 secondi di musica per far arrivare una canzone al primo posto della BillBoard Top 100, tra quanto tempo gli artisti cominceranno a comporre canzoni da 15 secondi tralasciando tutto il resto della loro ricerca artistica?
Tra le grandi criticità del sistema della musica sulle piattaforme di streaming, c’è da considerare il ruolo dei gatekeepers: sono coloro che creano le playlist algo-toriali. Sono 130 persone in tutto il mondo, che determinano chi entra e chi esce dalle playlist più influenti. Sono guidati dalle performance e dalla retention degli ascoltatori, cioè massimizzare il tempo che gli ascoltatori dedicano ad ascoltare una determinata playlist: con il loro lavoro, modificano quindi le playlist per ottenere questi risultati.
È importante sottolineare che i gatekeepers non forniscono informazioni sui KPI che utilizzano per prendere le decisioni, rendendo ancora più misteriose le modalità con cui operano.
A questo punto verrebbe da chiedersi: siamo veramente liberi di scegliere quello che vogliamo ascoltare? Stiamo pagando chi ascoltiamo? Non ci stiamo perdendo degli artisti che, per svariati motivi legati alla loro non-viralità, non possono raggiungerci perché non riescono a uscire dal rumore di fondo? E invece, veniamo raggiunti da artisti che non lo “meriterebbero”?
Le limitazioni legate al business-model sulla viralità modificano l’offerta creativa che riceviamo. Sarà per questo che avevo già ascoltato Fulminacci e La Rappresentante di Lista ben prima della loro (apprezzatissima) partecipazione a Sanremo? Chi può dirlo.