Non ti pago, non ti pago, non ti pago!

Non ti pago, non ti pago, non ti pago!

In principio "Non ti pago" era solo il titolo di una commedia di Eduardo De Filippo in cui uno sfortunato gestore di banco lotto si rifiutava di pagare una vincita, poi è diventato "Non si paga, non si paga!" in una commedia di Dario Fo recitata ancora oggi sulle scene (quelle aperte) di tutto il mondo: in entrambe l'atto di non pagare era una provocatoria distruzione dello status quo. Ora, invece, il grido "non ti pago" arriva da ogni angolo ed è sulla bocca e sulle bacheche di tutti, unendo in un solo afflato gli utenti dei social media e i proprietari delle piattaforme.

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L'evento social della settimana è stata la decisione di Facebook di non sottomettersi alla volontà del Governo Australiano di far pagare alla grande F blu un corrispettivo per la pubblicazione di news provenienti dai media nazionali. Con una decisione unilaterale, Facebook ha deciso di sospendere la presenza sulla piattaforma dei media che avrebbe dovuto pagare.Una bella disamina della questione è stata fatta da Social Media Today, parlando dell'ipotesi di una lotta politica fra Zuckerberg e la stampa conservatrice di Murdoch che domina il panorama mediatico australiano, ma anche di un estemporaneo tentativo da parte di Zuckerberg di vedere come sarebbe la piattaforma senza news, dal momento che secondo fonti ufficiali di Menlo Park"Per Facebook le news rappresentano un guadagno molto relativo, dal momento che la loro presenza sui News feed degli utenti rappresenta solo il 4% del contenuto, mentre lo scorso anno ha garantito ai media 5,1 miliardi di contatti ai siti di news australiani, valutabili in circa 407 milioni di dollari australiani". Come sempre però queste riflessioni oziose prendono un giro differente..

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Facebook non è l'unico a non voler pagare per le news pubblicate sulla sua piattaforma: leggendo i commenti sulle pagine dei media italiani, è evidente il fastidio sentito dagli utenti quando un post che linka a una notizia del sito online conduce a un contenuto riservato agli abbonati. La Stampa, per esempio, si è sentita costretta a rispondere "Ai lettori che non vogliono pagare il giornale". Come quel signore per cui «Nel mezzo di una pandemia, mettere a pagamento un articolo che spiega le “regole” per proteggere bambini e genitori , lo trovo penoso. Non siete più i miei preferiti». La risposta de La Stampa prova a coniugare il libero mercato con l'assistenzialismo, il Citizen Kane di Quarto Potere con le storiche richieste di sottoscrizione del Manifesto: "I giornali non sono enti di beneficenza ma imprese editoriali private e sono in crisi, la raccolta pubblicitaria che un tempo ripagava il lavoro è crollata, se i lettori non ci comprano rischiamo di chiudere, è già tanto riuscire ancora a offrire l’abbonamento a un euro al mese, troppo poco per far tornare i conti. Questa è in sintesi la risposta. Se volete che il vostro giornale continui ad esistere, questo è il momento di sostenerlo". Ma siamo sicuri che i lettori online si identifichino con la testata sotto i cui post lasciano i loro commenti?

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"I titoli rossi dei nostri giornali" di cui parlava Giorgio Gaber non identificano più un pubblico che non si prende la briga di andare in edicola a comprare un tassello della propria identità culturale. La tendenza è quella di commentare in modo vibrante le opinioni contrarie alle proprie, mettendo in moto il paradosso dell'algoritmo. Interagendo con un certo tipo di notizie, e con la loro fonte, dimostriamo di essere interessati a quanto dicono e scrivono e quindi le ritroviamo con più frequenza sul nostro newsfeed, procurandoci maggiore irritazione e quindi diminuendo ulteriormente il riconoscimento nei valori della testata. Per ovviare a questo problema, nel novembre 2020 il Giornale di Brescia ha effettuato la scelta drastica, e speculare rispetto a quella recente di Facebook in Australia, di non pubblicare più alcun post sulla sua pagina. In attesa di conoscere se e come questa decisione abbia influito sulle vendite del giornale e sulle visite all'edizione online, gli ultimi dati ADS risalgono proprio al mese di novembre, il consueto passo laterale che caratterizza queste riflessioni oziose mi porta al commento di una gentile lettrice che, sotto il post che annunciava questa decisione, ha commentato con "E sottopagare uno stagista che facia moderazione e cacci i disturbatori no eh?".

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A parte il fastidio di questa ormai abusata costruzione sintattica che cerca di imitare un parlato proprio da disturbatore di pagine social, il commento è solo un'altra espressione di svalutazione e di desiderio di gratuità: pur di dare a noi le notizie gratis, sottopagate pure chi lavora per voi. In fondo è la stessa pulsione che sta dietro il desiderio di acquistare i pomodori a un euro al chilo, senza interessarci delle condizioni in cui lavora chi li raccoglie, e dietro il successo della cosiddetta "Musica liquida". Durante un recente chiacchierata su ClubHouse dedicata proprio alla musica Andrea Thomas Gambetti, titolare di Preludio, ha spiegato chiaramente il gap che esiste fra la remunerazione di un artista attraverso le vendite dei CD durante i concerti (che, ricordiamo, da un anno sono solo una chimera) e gli streaming su Spotify: Se durante una tournée un artista indipendente vende1000 dischi diciamo a 10 Euro l'uno, l'incasso è di 10mila Euro, diciamo poco meno di 1000 euro a brano. Ora, come riportato su questo sito: "supponendo che un artista abbia raggiunto con un singolo brano 10mila stream sappiamo che Spotify dovrebbe riconoscergli circa 43 dollari". La normativa europea sul copyright, in via di ratifica, dovrebbe cercare di rimediare a questa sperequazione, e dubitiamo che Spotify cancellerà tutta la musica dal proprio catalogo dal momento che la presenza dell musica è proprio il suo core business: eventualmente si vedrà costretta ad aumentare il prezzo di fruizione, ma noi saremo disposti a pagarlo?

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L'atteggiamento acquisito dal pubblico nei confronti della musica sembra ispirarsi alle incitazioni di Marcello Baraghini di "Stampa Alternativa" , quello che poi avrebbe lanciato i libri Millelire, che nel suo libro "Ripendiamoci la musica" denunciava "la mercificazione antidemocratica della musica, l’asservimento dell'arte nei confronti del capitale e l’oligarchia discografica in grado di controllare indisturbata l'intero settore dello spettacolo" invitando a sfondare i cancelli dei concerti per entrare senza pagare il biglietto. Peccato che in quegli anni, era la metà dei settanta, l'oligarchia discografica proprio grazie ai soldi accumulati da gente come Carlos Santana (apostrofato come "servo della CIA in un concerto del 1977) riuscisse a finanziare esperimenti di giovani band emergenti e a dare spazio al suo interno anche a contestazioni e innovazioni radicali come quello del nascente movimento Punk.

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L'illusione che tutto possa essere disponibile per tutti senza alcun prezzo da pagare in cambio, infatti, non è certo l'avveramento dell'utopia del Paese di Bengodi raccontato, in un altro periodo di pestilenza, da Giovanni Boccaccio, un paese dove "si legano le vigne con le salsicce e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d'acqua". Topograficamente siamo più dalle parti del collodiano paese dei balocchi, dove c'è una assoluta liquidità fra la condizione di spettatore e quella di attore: dopo aver goduto dei servizi gratuiti e degli show di altri, anzi proprio mentre lo facciamo, ci trasformiamo noi stessi in fonte di intrattenimento.

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Tutto quello che ci ruota intorno, dalla musica alle immagini, dalle news ai paesaggi, viene vissuto come una commodity il cui unico valore è quello di offrire una photo opportunity alla continua esibizione di noi stessi: un esempio platealmente evidente è il restauro del Teatro Italia di Venezia, trasformato da una catena austriaca in un supermercato fra i gridolini di gioia di quanti affermano che "così è stato salvato". Un teatro, però, non è fatto dalle sue mura, e se fra le sue mura non si tengono spettacoli esso diventa solo un supermercato con delle pareti affrescate. Senza considerare che questo ruolo di commodity prima o dopo toccherà anche a noi, anche solo per una questione di statistica. La totale coltivazione dell'ego come unico punto di riferimento, però, ci fa credere che questo non avverrà mai: viviamo nella convinzione, coltivata da anni di "Amici" di Maria de Filippi, che il nostro presunto talento basti a sé stesso, e che "esprimere quello che abbiamo dentro" sia il solo scopo della nostra esistenza di performers.

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È proprio questo che siamo diventati, secondo il bel libro "La società della performance" di Maura Gancitano e Andrea Colamedici: la debordiana società dello spettacolo è crollata insieme alla divisione fra spettatore e attore, fra produttore e consumatore, fra scrittore e lettore, fra speaker e ascoltatore sancito in modo ormai definitivo dall'avvento dei social media. Anche qui però, le leggi economiche continuano ad avere la loro parte. Il talento, la dedizione, il continuo allenamento, la ricerca estenuante hanno un costo che deve essere remunerato, e se a chiedere questa remunerazione è tendenzialmente lo stesso numero di persone che dovrebbe pagare per vedere la performance, è evidente che il valore percepito di questo continuo spettacolo tende allo zero.

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E tendente allo zero è anche il reddito percepito da migliaia di lavoratori dello spettacolo, quelli veri, in questa Quaresima che dura ormai da più di un anno. Una Quaresima che sembra costretta a prorogarsi nella disattenzione di tutti quelli che sono convinti che con la cultura non si mangi, che l'arte sia puro intrattenimento, che in fondo "lo saprebbe fare anche il mio falegname": uno dei tanti esempi di questa svalutazione è il bando con cui si vorrebbe affidare a “privati cittadini, imprese, fondazioni, enti e istituzioni pubbliche, accademie, università” il compito di "abbellire" (come se l'arte fosse solo abbellimento) la nuova Linea 4 della Metropolitana di Milano, che dopo vent'anni sembra finalmente destinata a vedere la luce. Peccato che l'avviso pubblico precisi che “gli interventi selezionati dovranno essere a totale carico dei proponenti, che dovranno dunque essere autosufficienti in termini economici, di eventuali sponsor, di fattibilità, di realizzazione, nonché di sostenibilità ambientale”.  Insomma, gratis tanto per cambiare. e per continuare a farci coltivare l'illusione, già miseramente fallita anche in campo liticio, che "Uno vale Uno" o che uno vale l'altro, mentre basta scendere in strada per capire che non è così, e non potrà mai esserlo. Mel Brooks lo aveva capito già: life stinks



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