Organizzazione, comunicazione e percezione: la mia esperienza col Covid
Il saturimetro da dito.

Organizzazione, comunicazione e percezione: la mia esperienza col Covid

Da quando ha cominciato a circolare tra noi e 'attraverso noi', il virus che sta mettendo in ginocchio il mondo e la nostra intera esperienza sociale ha iniziato una gara di velocità, che è l'emblema di come sia cambiata (in peggio) la società. Nell'epoca in cui le notizie viaggiano a ritmi così vertiginosi da rendersi spesso non verificabili (per mancanza di voglia e di tempo, troppo spesso per sciatteria e malafede), anche per chi le rincorre e diffonde per mestiere, Covid-19 è riuscito a correre ancora più rapidamente, e, dalla pandemia globale che ha scatenato, ancora grazie a noi è mutato, contagiando ben presto testate, blog e social media, e definendo il codice genetico dell'infodemia, un digital virus altrettanto pericoloso per il nostro presente e il nostro futuro, evidenziando le falle organizzative del sistema che ci governa, fino alle conseguenze che esse generano, come valanghe impazzite, nella popolazione. Tutto quello che leggiamo e osserviamo, però, ci aiuta solo a farci un'idea e a darci percezione di ciò che poi diventa esperienza, come è successo a me e alla mia famiglia, nel momento in cui non si sa dove, e non si sa quando, il virus – quello che fino a poco prima sembrava solo uno dei tanti argomenti del telegiornale – varca la soglia di casa. Portando non più solo timore ma scompiglio reale, nella propria vita e nell'organizzazione quotidiana.

Comunicazione: percezione e realtà

«Abbiamo un problema». Così, più o meno tre settimane fa, la mia compagna mi avvertiva di non sentirsi bene, e, di lì a poco, di avere una temperatura che superava i 38°. La preoccupazione per lei, paradossalmente, è stata subito oscurata da quella per mia madre e mio padre. Mia, la nostra seconda figlia, aveva passato il pomeriggio da loro, come succede quasi sempre se siamo entrambi a lavoro. Qualsiasi cosa avesse Rosaria, quindi, ce l'aveva probabilmente la bambina. Così come i suoi nonni.

Un sentore, quest'ultimo, diventato presto un fatto, visto che a distanza di un paio di giorni l'uno dall'altro, ci siamo ammalati tutti. Temperatura alta, mal di testa, profonda sensazione di spossatezza, naso quasi del tutto intasato. E tosse. Leggera, fortunatamente, ma non abbastanza da oscurare la paura e le continue prove di respirazione di cui, ora dopo ora, ho chiesto conto a mio padre e mia madre, ai miei occhi da quel momento più piccoli e indifesi di Mia, che pure ha solo 8 anni. In questo, probabilmente, siamo un 'campione statistico' perfetto: da lei a Gaia, che ha quasi 15 anni, a me e Rosaria che siamo sui 40, fino ai miei, che hanno raggiunto la soglia dei 70. Sarà per questo che mi sono stupito quando il nostro medico di base, alla definizione dei sintomi da parte della mia compagna – che nel momento di quella prima telefonata era l'unica a stare male –, non ha subito ordinato un tampone per tutti: «Stia a casa, signora, ma se per ogni sintomo influenzale ci allarmiamo, non ne usciamo più». Per poi, esortato su come gestire l'accesso a scuola delle nostre figlie, sentenziare: «Se non hanno sintomi ci possono tranquillamente andare». Dopo qualche discussione, però, non senza molti dubbi, fortunatamente il buonsenso ci ha impedito di seguire quel consiglio, e, da subito, abbiamo interrotto la frequenza scolastica. E meno male, mi viene da dire, visto come poi si sono evolute le cose.

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Quella scelta, infatti, pur rivelandosi corretta, non ha impedito ai miei genitori di essere colpiti dal virus (pochi dubbi che sia Covid), che ha lasciato libero mio padre dopo un paio di giorni, ma che, per più di 7/8, ha assillato mia madre con febbre alta e non solo. Senza andare nel dettaglio e nella cronaca di queste ultime settimane, in ogni caso, passate tra la difficoltà di comunicare col medico di base, quella di farsi spiegare la terapia domiciliare, le attese dei tamponi (di cui abbiamo un solo esito – positivo – per Mia, e di cui siamo tuttora in attesa di referto per me e mia madre e di chiamata dall'ASL per Rosaria, Gaia e mio padre) e le continue misurazioni dell'ossigenazione di mia madre, a cui ho costretto mio padre – su suggerimento di una mia amica (medico), che nel frattempo si è resa disponibile a seguirci – quello che abbiamo vissuto, e che stiamo vivendo, ci consente di testimoniare direttamente le difficoltà che le persone incontrano quotidianamente. Non solo per avvisare di stare male, quanto anche per chiedere di farsi testare e per capire come potersi curare a casa, costantemente a contatto con l'angoscia di dover – all'improvviso – correre in ospedale. 

Organizzazione: politica e sanità

Mi confronto di frequente con la mia amica – pediatra, ricercatrice e docente – che mi ha aiutato monitorandoci passo dopo passo, ora dopo ora. Parliamo spesso di come una corretta comunicazione sia ormai fondamentale in qualsiasi ecosistema, e su quanto si renda giorno dopo giorno assolutamente indispensabile per la ricerca e per ogni ramo della medicina, su tutti i livelli del circuito istituzioni-strutture-medici-pazienti. Ricordo le prime chiacchierate, quando lei era ancora a Chicago – all'inizio di questo (ahimè) storico anno –, e come, già all'epoca, la politica e i media fossero al centro delle nostre discussioni, nelle quali lei mi parlava dell'esperienza diretta e dei confronti che aveva quotidianamente con chi combatteva 'al fronte' (a volte senza supporto), e io, invece, a mia volta, le trasferivo le ansie, le preoccupazioni – ancor più frequentemente le angosce – dovute alle mie percezioni di 'uomo comune', in quanto compagno, padre e figlio di due genitori di circa settant'anni, per i quali viviamo da mesi nello stato di massima allerta.

Discorsi, i nostri, che sono proseguiti fino agli ultimi giorni, quando proprio lei mi ha aiutato coi miei genitori, che, in attesa dei tamponi, sono certamente prossimi a rientrare nel novero dei 'positivi', come me, la mia compagna e la nostra prima figlia, e così come già ufficialmente è quella più piccola. Per questo ho voluto scrivere queste righe, a circa 20 giorni dal momento in cui questa nostra esperienza diretta è iniziata, per chiarire cosa è successo a noi, e, molto probabilmente, a migliaia di persone che si sono ritrovate a casa con sintomi. Ma, soprattutto, con la paura. Per il virus, di sicuro, ma anche per i difetti di comunicazione e informazione da parte del sistema, e per la disorganizzazione con cui si sono più o meno scontrate. Pur non volendo per forza giudicare male, immaginando la difficoltà nel gestire la situazione, le domande che mi sono fatto e che mi sto facendo sono tante: e se avessimo mandato le bambine a scuola? Quanti altri bimbi e ragazzi si sarebbero potuti infettare? Quanti altri genitori? Quanti altri nonni? E se in attesa di fare i tamponi qualcuno di noi fosse peggiorato? Possibile che in una famiglia, con un elemento con sintomi evidenti, i tamponi vengano fatti uno alla volta e non a tutti insieme per guadagnare tempo? E se uno dei miei genitori, anziani, fosse peggiorato? Con chi avremmo dovuto prendercela? Col medico di base che non ha agito subito o che, in secondo momento, lamentava troppe richieste tutte insieme? Con le ASL e con una lentezza di cui non si comprendono le responsabilità? Coi politici che per mesi ci hanno ammorbato con una propaganda a colpi di nuovi respiratori e nuove terapie intensive, che oggi, come in un incubo, sembrano già esaurite?

Senza contare tutti gli altri quesiti che deve, per forza di cose, porsi una famiglia come la nostra, con due figlie in età scolare: da domani, alle 9 del mattino, Rosaria – col suo computer – e Mia – col suo tablet – saranno in cucina. La prima a lavorare, la seconda collegata con la sua classe. Gaia, in camera sua, sarà in video col suo portatile. E io, col mio, sarò nell'ufficetto del nostro salone ad ascoltarle tutte e tre, nonostante le porte chiuse, mentre tento di lavorare. E mentre aspetto la foto che ogni due ore – su WhatsApp – mi invia mio padre, con l'indice di ossigenazione di mia madre.

Tutti in isolamento, con nuove preoccupazioni che si sommano alle altre, ma con la convinzione che, nonostante tutto, rispetto a tanti altri, possiamo sentirci fortunati e non dobbiamo lamentarci. Perché ancora oggi, dopo mesi, troppe persone non hanno risposte e non conoscono il vero motivo per il quale hanno perso i loro cari. E nonostante ancora oggi, dopo tre settimane, io non senta odori né sapori e ogni cosa abbia un retrogusto amaro.

Come l'epoca che viviamo.

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