Privacy online, non lasciamo soli i cittadini
E’, ormai, questione di giorni e manca solo la firma del neo presidente Donald Trump perché, negli USA, i gestori delle c.d. autostrade dell’informazione si vedano riconosciuta la possibilità di tracciare, istante per istante, la navigazione online dei propri utenti attraverso computer, tablet e smartphone e i sempre più numerosi oggetti connessi [ndr smartwhatch, automobili, lampadine, giocattoli, prese elettriche, lavatrici, frigoriferi ecc] che affollano e affolleranno il nostro quotidiano.
La nuova legge ribalterà le attuali regole – peraltro da poco varate dall’Autorità statunitense per le comunicazioni [ndr FCC] e non ancora entrate in vigore – che vietano ai fornitori di servizi di connettività di monitorare la navigazione degli utenti senza il loro preventivo consenso.
Le stesse regole – più o meno – che governano la materia da questa parte dell’oceano.
L’esigenza di combattere il terrorismo internazionale, tuttavia, sta progressivamente spingendo anche Governi e Parlamenti europei non solo a autorizzare gli internet provider a raccogliere e conservare le informazioni di navigazione dei loro utenti ma addirittura a imporre loro di farlo sebbene, per il momento, solo per finalità di anti-terrorismo.
Ha cominciato la Gran Bretagna e altri Paesi ne seguiranno a breve le orme, a dispetto delle indicazioni della Corte di Giustizia europea che con alcune recenti pronunce aveva indicato la direzione opposta.
Anti-terrorismo a parte, peraltro, non ci vuole molto a capire che complice il neo-colonialismo tecnologico statunitense, modelli di business, tecnologie e servizi che, grazie alla nuova legge, nasceranno nei prossimi mesi oltre-oceano, contamineranno in fretta anche i mercati europei, suggerendo o addirittura imponendo una revisione delle nostre regole e un ripensamento dei nostri principi.
E i rischi connessi a un simile approccio sono elevatissimi e pericolosi perché trasparenti, mascherati, impercepibili, nel quotidiano, a cittadini ineducati al valore della privacy e che ne scoprono l’importanza solo e esclusivamente nel momento di emergenza quando, normalmente, è troppo tardi per invocarne tutela perché, nel nuovo contesto digitale, perdere il controllo della propria identità personale lasciando andare alla deriva tessere fondamentali della propria intimità è questione di un click mentre riconquistarlo è talvolta questione drammaticamente impossibile.
La cronologia della navigazione online – ovvero le informazioni che tra qualche settimana i provider americani potrebbero vedersi autorizzati a raccogliere, conservare e vendere - rassomiglia sempre di più al diario segreto di un tempo perché racconta, secondo per secondo, click dopo click, cosa facciamo quando siamo soli – o, almeno, supponiamo di esserlo – davanti al nostro computer, al nostro smartphone, al nostro tablet, quali siti visitiamo, quali pagine leggiamo, che genere di servizi utilizziamo, che video guardiamo o che musica ascoltiamo.
E prima di dire che non si ha nulla da nascondere e nulla di cui vergognarsi varrebbe la pena che ciascuno scorresse a ritroso la propria cronologia di navigazione sul computer di casa, quello dell’ufficio, lo smartphone e il proprio tablet, richiamando alla memoria – ammesso che la memoria umana trattenga così tante informazioni su di noi – tutti i contenuti e i servizi con i quali ci siamo confrontati, negli ultimi anni, giorno dopo giorno, istante dopo istante: quando la curiosità ci ha spinto a cliccare su un link sul quale, probabilmente, un istante prima e un istante dopo non avremmo mai cliccato, quando abbiamo avuto paura di essere ammalati di chissà quale orribile male e siamo corsi a cercare online l’elenco dei sintomi più frequenti, quando in un raptus di gelosia o invidia abbiamo iniziato a “scavare” nella vita del nostro partner o di un collega e così via nelle centinaia di altre occasioni nelle quali Internet ha rappresentato lo specchio che abbiamo interrogato facendo domande che, forse, non avremmo posto neppure al nostro migliore amico.
La cronologia di navigazione contiene più informazioni di quante ce ne fossero nel più ricco e accurato diario personale di un tempo e, soprattutto, a differenza del diario nel quale eravamo noi a scegliere cosa scrivere e cosa non scrivere, la cronologia annota tutti i nostri passi online, quelli volontari e quelli involontari e li decontestualizza giacché viene registrata la rotta che abbiamo seguito e il contenuto che abbiamo sfogliato ma non il perché l’abbiamo fatto, non lo stato d’animo nel quale ci trovavamo in quel momento e neppure se dietro a quel computer ci fossimo noi per davvero, un collega, un amico o, addirittura, uno sconosciuto che in un modo o nell’altro aveva preso possesso del nostro dispositivo.
La cronologia di navigazione, pertanto, racconta più di un diario segreto chi siamo e, spesso, lo fa in maniera distorta.
E’ per questo che la proposta che sta per diventare legge negli Stati Uniti non può essere bollata né come una decisione di tipo tecnico e per tecnici, né come una decisione che non ci riguarda perché lontana nello spazio.
E’ al contrario importante chiedersi perché una proposta di legge che prima ancora che contraria alla costituzione sembra contraria al buon senso, all’etica e alla morale sta per diventare legge.
Ed è importante darsi una risposta schietta, diretta, senza ambiguità.
Se sta accadendo è perché, a prescindere da proclami e dichiarazioni solenni, nella realtà la raccolta massiccia dei dati dei cittadini-utenti, oggi, fa comodo a tutti con la sola eccezione proprio dei cittadini e utenti.
Fa comodo ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica perché, senza alcuno sforzo, si ritrovano a poter trarre profitto dall’autentica miniera d’oro che, sin qui, si sono dovuti rassegnare a veder scorrere dentro le proprie macchine senza potervi mettere il naso.
Fa comodo agli investitori pubblicitari che, da domani, potranno acquistare quantità industriali di profili personali degli utenti ed utilizzarli per veicolare pubblicità targettizzata come mai prima d’ora.
Fa comodo alle agenzie di intelligence e ai Governi di mezzo mondo perché l’esistenza di un archivio tanto puntuale e dettagliato su ciascuno dei propri cittadini è considerato – talvolta a torto – un ineguagliabile strumento di lotta al terrorismo e, più in generale, alla criminalità organizzata e non.
Non c’è dunque davvero nessuno, negli USA come in Europa, tra quanti siedono nelle stanze dei bottoni del potere politico e economico che abbia un interesse reale a limitare il fenomeno della pesca a strascico dei dati personali di miliardi di cittadini e il loro utilizzo ai fini della costruzione di profili sempre più precisi e dettagliati.
E’ per questo che è urgente correre ai ripari e cercare, prima che sia troppo tardi, rimedi e soluzioni in grado di controbilanciare la posizione di utenti e consumatori.
Bisogna investire nell’educazione dei singoli al valore e alla cultura della privacy e dell’identità personale perché un diritto del quale si ha scarsa consapevolezza è un diritto debole ed esposto, per definizione, a aggressioni e minacce.
Bisogna investire, senza indugio, nelle organizzazioni nazionali e internazionali che si danno per scopo e per obiettivo quello di difendere la privacy di utenti e consumatori, finanziandole e autorizzandole a promuovere – come in parte il nuovo Regolamento europeo abilita i singoli Stati membri a fare – autentiche class action a tutela della privacy dei singoli.
E bisogna, soprattutto investire per davvero nelle autorità amministrative indipendenti chiamate a garantire e promuovere privacy e riservatezza perché la lotta, oggi, è impari e un’Autorità debole perché priva delle adeguate risorse rischia di essere più un alibi per i governanti che un presidio di tutela per i governati.
Guai a dimenticare o non considerare che democrazia e mercati dipendono e dipenderanno sempre di più dalle regole in materia di privacy e trattamento di dati personali e dall’enforcement di tali regole.
Lasciare soli i cittadini sarebbe un errore letale.