Quando mia madre mi chiese di spiegarle il mio lavoro così come glielo raccontai e lo racconto a coloro che mi chiedono cosa il Counselling sia
Grazie a M.C. per i suoi preziosi lampi di saggezza e grazie di cuore alle persone che hanno condiviso con me un tratto della loro vita ed alle persone con le quali lo condivido ora

Quando mia madre mi chiese di spiegarle il mio lavoro così come glielo raccontai e lo racconto a coloro che mi chiedono cosa il Counselling sia

Negli ultimi tempi girano voci sul counselling che con questo articolo vorrei provare a sfatare. Immagino di raccontarvi il counselling così come l’ho esposto a mia madre quando me lo chiese.

Mia madre è morta lo scorso anno, lentamente le sue forze se ne sono andate e si è spenta, dopo aver salutato mia sorella per l’ultima volta. Avrebbe compiuto i 96 anni, una bella età, con tanti sconvolgimenti in mezzo. Era una donna non facile, ma molto intelligente e curiosa del mondo in cui viveva; mi aggiornava spesso sugli avvenimenti di cronaca, sapendo che non mi piace guardare la tv, sic!

Aveva chiesto a mio fratello di farla navigare sul web, per vedere come fosse; e quando le sue due nipoti si sono trasferite all’estero, talvolta le salutava dal mio cellulare. La sua decisione di ritirarsi in una residenza non aveva raccolto il nostro accordo, ma ora penso sia stata una scelta ottima per lei. Qualche anno fa, viveva a casa sua, di punto in bianco mi chiese: “Ma insomma, mi spieghi che lavoro fai?” (leggi tra le righe: ma che cavolo stai combinando ancora?)

Lei sapeva bene la mia passione per capirmi; come altri famigliari si era detta contraria alla mia prima psicoterapia a Milano. E conosceva i miei sacrifici di prendere il trenino che dal lago, amato, mi portava in città, e da lì un altro treno verso Milano, e poi il metro per arrivare nello spazio che rappresentava i miei desideri.

Mi definiva “cocciuta”, mi potrei definire “determinata”: come vedete due termini definiscono due attitudini simili ma con connotazioni differenti.

Le raccontai ciò che chiarisco ai miei clienti quando mi chiamano o ci vediamo al primo appuntamento.

Di solito, il primo velo che squarcio è che non sono una psicologa, nemmeno una psicoterapeuta, ovviamente non una psichatra, ma una professionista con una propria formazione specifica ed una formazione personale. Ci tengo molto al lavoro su me stessa dato che a mio avviso rappresenta il nostro primo strumento.

Mi inoltro nella definizione aggiungendo che lavoreremo su ciò che accade adesso, sul motivo per cui hanno sentito il bisogno di lavorare con me su se stessi. Non andremo nel profondo della personalità, questo di solito li fa tirare il fiato, Pfiui! Perché questo lavoro è di competenza di colleghi ad hoc, ai quali volendo, se durante il lavoro ne sentissero la necessità, posso poi indirizzarli. Se dovessero avere necessità di relazioni specifiche, che oltrepassano le mie competenze, o di trattamenti temporanei con medicinali, vale il discorso del ruolo che non mi compete. Ma, sottolineo che in ogni caso ne parliamo e decideremmo insieme la via migliore e nel caso il professionista specifico verso il quale avviarli; non li lascerò soli, questo è fondamentale.

In pratica, vivo il counselling come un progetto condiviso con la persona con la quale sto lavorando, oppure un gruppo, ma per il cliente/mia madre, preferisco avere come esempio una singola persona.

Lavoriamo sulla situazione che lo fa sentire male e lo ha spinto a contattarmi, di solito su segnalazione di persone che hanno lavorato con me. (leggi=passaparola)

Le persone raccontano la loro storia, e insieme facciamo una bella pulizia: cerchiamo di capire cosa sentono davvero loro e cosa invece appartiene, ad esempio, alle aspettative altrui, esternate o no. In modo che dopo la pulizia delle erbacce, ciò che resterà appartiene a loro stessi e alle loro aspettative verso se stessi e la loro vita.

Spesso mi chiedono consigli, così osserviamo come mai una persona pensa di averne bisogno, come se l’altra persona potesse conoscere meglio di loro stessi ciò che essi sentono.

 In questo lavoro un aspetto fondamentale è il rispetto della scelta personale di colui/colei con i quali sto lavorando, una volta fatta la necessaria pulizia. Rispetto che sta nei limiti di un possibile pericolo, per sé o per altri, naturalmente. Ed anche questo lo chiarisco bene nel cominciare, in modo che sia chiaro, anche se non lo sarà mai abbastanza, che insieme valuteremo le possibili soluzioni, osserveremo o faremo il tentativo di osservare una situazione sotto altri punti di vista, in modo che la persona possa trovare la propria soluzione migliore nel momento della vita che sta vivendo. Spesso ci si scorda che ci sono passaggi annunciati nella vita di uomini e donne, che costituiscono cambiamenti, ai quali in quel preciso momento non si sa fare fronte o sembra di avere perso gli strumenti adatti.

Il mio lavoro ha a che fare con la relazione, con se stessi e con gli altri e con la capacità di comunicare con se stessi e con gli altri.

Chiamiamo le emozioni con il loro nome, facciamo spazio all’ascolto ed all’elaborazione.

Inoltre, facciamo dei bilanci, riguardo al progetto iniziale, per aggiustarlo, calibrarlo meglio, in modo che la persona sia consapevole di dove si sta andando  e in che modo.

Di solito, lascio il progetto aperto, definiamo approssimativamente un tempo, qualche colloquio, per capire meglio e poi aggiustiamo la mira man mano.

Ai miei clienti piace come spiegazione, si sentono liberi e partecipi, anche se è ovvio che monitoro la situazione sia attraverso la riflessione e le note personali, sia attraverso la supervisione e in caso di necessità la mia personale psicoterapia.

E a mia madre pure, era piaciuta, e le era sembrata abbastanza chiara, e come lo trovate voi questo racconto di cosa sia il counselling?

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