Rappresentazione e realtà: il rischio di fidarsi delle proprie “percezioni”

Rappresentazione e realtà: il rischio di fidarsi delle proprie “percezioni”

Il tema della possibile distanza tra ciò che percepiamo e la “realtà delle cose” è un topos (un argomento ricorrente e quasi obbligato in una certa cultura) tradizionale del pensiero occidentale (e non solo: i Veda indiani trattano del “velo” che ci impedisce di vedere la realtà delle cose, e del lungo cammino da intraprendere – con ripetute reincarnazioni – per arrivare a liberarsene). Nella nostra (occidentale moderna) cultura abbiamo pensato fino a poco tempo fa che la Ragione sia presente in tutti noi e che l’uso delle capacità cognitive razionali e del metodo scientifico sia in grado di uscire da questa aura di “mistero” e di “limiti umani” rendendo possibile (con il progresso) la trasparenza delle leggi che regolano ogni cosa secondo i principi di causa ed effetto leggibili matematicamente. La fiducia nella capacità degli umani di rendersi conto della realtà delle cose, di “spiegarla” (termine che dice appunto “aprire”, “srotolare”, “rendere chiaro”) è cresciuta e ha alimentato la convinzione di essere nella fase finale della storia, quella in cui la specie umana prende piena consapevolezza delle sue potenzialità e delle sue capacità di riprogettare il mondo a misura d’uomo, facendo infine davvero dell’Universo la sua casa (altro che aspettare il paradiso terrestre!). In questa convinzione culturale la “distanza” tra ciò che percepisco o mi rappresento e la realtà delle cose è “solo” addebitabile alla ignoranza, correggibile con l’educazione e la diffusione delel conoscenze e del metodo scientifico.

Ci sentiamo dire da qualche tempo che questa fiducia sembra quanto meno perdere un po' di slancio: il profluvio di titoli che contengono parole come “incertezza”, “complessità”, “imprevedibilità”, “sistemi ipercomplessi”, interdipendenza mulltilivello dei fenomeni” ; la diffusione dell’idea che la scienza stia accettando un mondo che “prevede la imprevedibilità” e in cui l’intreccio di realtà diverse interagisce mutando continuamente le condizioni osservabili; il ritorno della irrazionalità della guerra (che oggi siamo costretti a vedere perché vicina a noi e ai nostri interessi materiali); l’arricchirsi della virtualità con la AI generativa, che fonde davvero realtà e immaginario; la dimensione sociale dei “social” (che stanno diventando l’ossatura sociale delle nostre comunità); il ritorno delle dipendenze di vario tipo, quindi ricerca di scorciatoie per ridurre la distanza tra desideri e realtà…. Tutti sintomi di un nuovo disagio nel rapporto tra ciò che percepiamo e crediamo di conoscere e la realtà complessiva da cui dipendiamo: torna la sindrome di impotenza dell’individuo di fronte a un “sistema complesso” che forse nessuno può davvero abbracciare, figuriamoci guidarlo. Per ora lo affrontiamo con tre strategie pratiche:

·        Rieditiamo l’ipotesi del “grande vecchio” che manovra dietro le quinte (non è un caso che ritornino serial tv basati sui “poteri forti nascosti”, dalle agenzie di intelligence ai giochi di potere alla Casa Bianca. Doi certo meglio sapere che c’è una logica, magari quella di un “cattivo” dietro le quinte, piuttosto di temere di trovarci nel caos totale.

·        Ci rifugiamo nel nostro piccolo orto privato (noi che qui stiamo ancora bene rispetto alla maggioranza dei viventi sul pianeta): o godendo i nostri risparmi e welfare, o costruendoci gruppi di fuga complice nel consumismo exciting ed edonista, o peggio nelle dipendenze.

·        Ci affidiamo a una sorta di religione basata sulla fiducia che la scienza in qualche modo risolverò il problema, come ha già fatto in passato: vedasi mito/timori sulla Ai generativa.

Questo quando ci troviamo a discutere al bar su come va il mondo: in pratica quello che facciamo è abbassare lo sguardo sull’immediato presente e all’agenda di domani mattina fidandoci delle nostre abitudini e delle nostre convinzioni personali (cioè soggettive). Del resto in questa società dell’immaginario evasivo (possibile perché viviamo nella ancora ricca Europa, ovviamente) sono rare le occasioni in cui la realtà indipendente dai nostri desideri ci impone qualche riflessione (esperienza divenuta per noi sostanzialmente spiacevole). In buona sostanza questa sgradevole esperienza ci accade o quando dobbiamo superare qualche tipo di valutazione (nel lavoro, nella scuola) o quando cominciamo a non poterci più concedere vacanze o cambio di auto come prima potevamo fare (per non parlare di chi ha problemi con le bollette, una minoranza per ora silente, tacitata da qualche assistenzialismo politicamente interessato).

Credo che questa deriva che lusinga le convinzioni soggettive favorendo l’ignoranza dei dati oggettivi sia da contrastare, ed ecco perché oggi vi presento (per chi già non lo conoscesse) un tipo di indagine iniziata da Ipsos Mori (la componente più intellettuale del noto gruppo). Nel 2012 Ipsos ha avviato (per ispirazione di Bobby Duffy, che nel 2018 ci scrive un libro sulla base dei dati raccolti internazionalmente nei primi cinque anni di rilevazioni) una serie di indagini (ogni anno su aree diverse) in cui si mettono a confronto le “percezioni” (le stime, le conoscenze soggettive) e i dati oggettivi sullo stesso tema.

I temi riguardano sempre aree di interesse sociale o economico o ecologico, comunque sono riconosciuti importanti e rilevanti per la convivenza e la gestione del futuro. Viene misurato il delta tra il dato oggettivo e il dato soggettivamente creduto o stimato: l’ampiezza del delta costituisce un “indice di ignoranza”. Incidentalmente, segnalo che nel libro di Duffy (che non è un giornalista alla ricerca di notorietà: Bobby Duffy è Professor of Public Policy e direttore del Policy Institute presso il King's College di Londra, ed è stato direttore generale dell'Ipsos MORI Social Research Institute e direttore globale dell'Ipsos Social Research Institute. Ha fatto parte della Strategy Unit del primo ministro inglese e del Centre for Analysis of Social Exclusion (CASE) presso la London School of Economics.) la graduatoria del livello di ignoranza –più gentilmente definita “misperception” dall’Autore- tra i campioni raccolti nelle varie nazioni vede svettare l’Italia:

Nel dicembre dell’anno appena salutato è uscita l’ultima rilevazione (10.000 dati raccolti in novembre), dedicata a pregiudizi socialmente diffusi: potete trovare si internet e scaricare l’intera indagine. Mi limito qui a proporvi alcuni di essi che mi sono sembrati interessanti proprio nella prospettiva sopra evocata. Seguendo la stimolante logica del report Ipsos Mori consideriamo tre ambiti di cruciale importanza per l’organizzazione e la coesione sociale.

Il primo riguarda le quattro “grandi minacce” spesso evocate nei media come causa di disordine sociale: l’ineguaglianza, l’immigrazione, l’onda musulmana, la criminalità diffusa. Ecco le tavole relative ai quattro temi:

Noterete che mentre è ampiamente sottostimata la accumulazione di ricchezza dall’1% della popolazione (si ignora quanto pochi individui siano detentori di così ampia parte della ricchezza nazionale, nonostante la moltitudine di dati esistenti e diffusi persino da Fondo Monetario Internazionale e dal WEF) sono di converso ampiamente sovrastimati i dati sulla immigrazione e sulla presenza di musulmani), mentre la convinzione che i crimini siano in aumento dal 2000 ad oggi a dispetto di una loro diminuzione i tutti i paesi sondati. In buona sostanza le persone preferiscono attribuire il loro disagio a fattori “esterni” (i criminali sono paragonabili anch’essi a un essere “fuori” dalla società dei “cittadini per bene”) che a un fattore “interno” (i ricchi sono cittadini per bene per antonomasia, nella nostra cultura, e forse in qualche modo “meritano” la loro ricchezza spropositata…che comunque preferiamo ignorare esattamente).

La persistenza di credenze irrazionale è il secondo tema aggregato dai ricercatori Ipsos:

In buona sostanza: circa un quarto della popolazione sembra dare credibilità a pratiche “magiche” mentre quasi una metà non crede alla scienza, e comunque false credenze (complotti, manovre segrete) hanno ampia circolazione ovunque. Una sintomatologia preoccupante: le false credenze hanno vita più facile dei dati e teorie scientifiche. Ancora una volta si tende a evitare il confronto con la realtà e il metodo per affermare una spiegazione: appunto, la soggettività libera da verifiche. Una parziale conferma di questa diagnosi (sommaria, di certo) la dà una quarta tavola di questa sezione relativa alle cose che concretamente potremmo fare (realisticamente ma assumendoci una scomodità personale) per il pur tanto condiviso bisogno di correggere la deriva climatica del pianeta:

Gli intervistati sono disposti a pensare un loro coinvolgimento nel riciclo dei rifiuti (che è solo al settino posto tra le cause della deriva climatica) ma assai meno a rinunziare all’areo o all’automobile o anche ad asciugare i panni sullo stendibiancheria piuttosto che nell’asciugatrice elettrica. In buona sostanza ci sono comodità e abitudini (giustificate, peraltro, comprensibili) cui non è facile rinunciare: anche perché se per la raccolta dei rifiuti i comuni si sono organizzati per facilitare la cosa, non altrettanto avviene per le altre abitudini citate, ad oggi. Il messaggio mi pare qui non tanto addebitabile ad una volontà di non sapere ma piuttosto al diritto di non addossarsi come individui una responsabilità non supportata dall’organizzazione istituzionale della comunità.

Un atteggiamento che va visto anche all luce dei dati relativi alla quarta area tematica toccata dalla indagine: la credibilità delle istituzioni.

Al di là del considerare (come tendenziosamente in questo caso. E si può essere o no d’accordo con questa scelta) l’elezione di Trump come una crisi delle istituzioni democratiche, il sintomo di una difficoltà a concedere fiducia al “sistema democratico” esiste ormai da anni ed è confermato da molte indagini affidabili, anche più solide e focalizzate sull’argomento.

Ma se la fiducia nel sistema si indebolisce i cittadini per forza di cose dovranno avere fiducia solo in sé stessi e nella loro comunità di riferimento, considerando minaccia tutto ciò che viene dall’esterno o che li carica di impegni gravosi. Preferiranno non vedere le ineguaglianze interne e cercare una solidarietà nella condivisione di credenze e pregiudizi, sostituendo con questa sorta di consenso rituale la fiducia in istituzioni di riferimento.

In questo quadro però per noi italiani troviamo una buona notizia: come avrete notato l’Italia non appare, in nessuno di questi dati, il paese a più elevato livello di misunderstanding. La classifica del 2018 non è più valida, e in queste cose almeno non siamo i più auto-ingannantesi o creduloni. Ecco, infatti, il dato presente nel report Ipsos di cui discutiamo qui:

Ultima considerazione: se facessimo una indagine di questo tipo dentro la micro-società delle aziende, indagando aspetti di valore e di fiducia e di credenze che circolano a proposito del lavoro e della propria organizzazione, troveremmo in indice di misunderstanding più elevato di questi, oppure accadrebbe il contrario?

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