#removie Rashomon di Akira Kurosawa: la verità, signori, non è che un punto di vista
“Così è, se vi pare”, è il distillato del pensiero pirandelliano sulla verità, non siamo che maschere, la verità in senso proprio, ontologico, non esiste, non è che un punto di vista.
È anche la lezione di “Rashomon” di Akira Kurosawa, film capolavoro del regista nipponico, Leone d’oro alla mostra di Venezia del 1951 e pochi mesi dopo Oscar come miglior film straniero. Il lungometraggio è una tappa miliare per tutti gli appassionati e, a oltre 70 anni dalla sua realizzazione, interroga gli spettatori con la stessa fredda onestà, li trascina nel ruolo del giudice e chiede loro di ascoltare le diverse versioni di un fatto di sangue verificatosi nella foresta, l’assassinio di un Samurai e lo stupro della moglie.
Ciascuno dei testimoni, il bandito, la moglie, il taglialegna e persino il Samurai, interrogato attraverso l’intervento di una medium, offrono una versione diversa. Ma a colpire gli spettatori di oggi e di allora non è la trama, né il portato filosofico in fondo non nuovo per l’Occidente: è la straordinaria coerenza tra la scelta delle inquadrature e il senso dell’opera, una sintesi perfetta a cominciare dalle prime immagini, quelle della porta della città dove avviene l’incontro tra il taglialegna, un monaco ed un cittadino e dove si innesca il racconto che procede per flashback. La porta rappresenta “una soglia” tra la realtà e la fantasia, ma è anche il palcoscenico di un teatro in cui, pirandellianamente, va in scena la vita quotidiana.
I protagonisti del film sono “maschere”; interpretano i dubbi, le meschinità e le grandezze di quel che rappresentano, e mettono in scena una rappresentazione della cultura giapponese con cui l’Occidente si era misurato solo pochi anni prima durante la seconda guerra mondiale. Sono maschere anche nell’espressività e nella recitazione, cosi lontane da quella hollywoodiana o dal neorealismo che avrebbero scritto la storia del cinema in questi anni ed in quelli a seguire.
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Kurosawa propone una scelta registica rigorosa, priva di soggettive: lo spettatore osserva da un punto di vista privilegiato e in ogni racconto è davvero “il giudice” del processo che si svolge, a lui si rivolgono idealmente i testimoni, inquadrati frontalmente. Niente contro-campi: ma la proposta “piana e lineare” di ogni versione. Lucida. Chirurgica.
Solo il finale apre uno spiraglio di speranza in questo viaggio che ci conduce alla conclusione che la verità non esiste. Ed è uno spiraglio che ha le sue radici non nel codice d’onore dei samurai, non nella religiosa certezza del monaco, ma nell’umanità dell’uomo comune che accetta e condivide un destino di cui non coglie i confini.
È difficile immaginare quanto profondamente il film colpì gli spettatori occidentali allora, ed è difficile credere quanto ancora oggi conservi intatto il suo fascino.
Da vedere e rivedere. Per il senso, ma anche perché è una singolare esperienza estetica.
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