Rewarding: meno controllo, più coerenza
Uno dei temi più ricorrenti nelle organizzazioni che stanno cercando di cambiare per rispondere meglio alle necessità dei clienti è quello legato all’autonomia e alla responsabilità delle persone.
L’obiettivo è aumentare la possibilità di prendere decisioni di valore senza dover necessariamente attraversare infiniti livelli (gerarchici) di approvazione. Si ritiene che la rapidità, favorita e supportata da competenza e prossimità con i clienti, possa costituire un importante vantaggio competitivo.
In linea con questa idea, si parla spesso di ridurre o migliorare quelle forme manageriali più tradizionali legate a comando e controllo.
“Trasformazioni agili”
Si inseriscono in questo scenario numerose “trasformazioni agili”, con la creazione di team orientati al cliente, più autonomi e cross-funzionali. Team che utilizzano metodologie di gestione del lavoro e dei progetti in grado di fornire ai clienti valore in modo incrementale, partendo dalle reali priorità —mettendole in discussione e cambiandole quando necessario — e mantenendo un ciclo di feedback e miglioramento il più rapido possibile. OK, lo ammetto… sto parlando di Scrum senza citare Scrum.
E fin qui tutto bene: sempre più aziende stanno andando in questa direzione con livelli differenti di soddisfazione e successo.
Persone più che processi
Ciò nonostante, rimangono diverse difficoltà su tematiche legate alle persone e ai processi HR che, nella pratica, risultano invece strettamente connesse al comando e al controllo. La conseguenza di questa difficoltà è che spesso manca coerenza tra come ci si riorganizza e come ci si racconta, tra lo sviluppo dei prodotti e le modalità di lavoro delle persone nel contesto in cui ci si trova a farlo. Quest'area è una delle principali che stiamo affrontando con Agile HR.
Ho avuto un’ulteriore conferma della centralità di questi argomenti durante il recente Agile for Management Forum che abbiamo organizzato come Agile Reloaded. Nella conferenza è emerso chiaramente come i più grandi ostacoli, o meglio le più grandi incertezze, siano oggi legate ad alcuni processi di management tradizionale: tra tutti performance management e rewarding.
Molte delle domande dei partecipanti vertevano proprio su questi aspetti di valutazione della prestazione e di definizione della premialità. I relatori hanno, con estrema sincerità, confermato di sentire il bisogno e l’urgenza di trovare una soluzione, ma di non averne ancora trovata una davvero convincente. Domande quali “Come premiamo le persone?” e “Come valutiamo la loro performance?“ rimangono ancora senza una risposta.
In questo articolo, non fornirò la risposta a queste due domande: sono convinto non ne esista una univoca. Sono due domande che aprono discussioni potenzialmente interminabili e che coinvolgono numerosi aspetti rispetto alla nostra prospettiva individuale sul mondo e sulle organizzazioni. Concentrandomi sul tema del rewarding, desidero però condividere alcuni spunti da cui credo possa nascere una riflessione utile e costruttiva.
Rewarding: sfide e opportunità
Innanzitutto, come possiamo descrivere la funzione del processo di premialità? In estrema sintesi il processo di rewarding è definibile attraverso la seguente affermazione:
“Fai questo e otterrai quest’altro (ti premio!)”.
Ma questa frase contiene in sé anche la sua versione complementare, ossia:
“Non fai questo? Non otterrai quest’altro (non ti premio!)”.
Di fatto, che ci piaccia o no, e al di là della nostra consapevolezza, questa è una vera e propria forma di controllo, paragonabile a tutte le altre che si sta cercando di ridurre per essere più abili nel rispondere alle sfide del mercato.
Perché si usa il rewarding?
Questo processo di solito cerca di rispondere a molteplici sfide e necessità con un’unica soluzione; in questa semplificazione risiede a mio parere uno dei suoi più grandi problemi. Le tre principali necessità a cui si tenta di rispondere facendo ricorso solamente a un’unica soluzione sono:
- motivare le persone;
- migliorare l’attrattività dell’azienda;
- compensare gli sforzi delle persone che non sono già riconosciuti attraverso lo stipendio.
A queste necessità — di solito esplicite, almeno in HR — se ne aggiunge una quarta, sovente meno esplicita: punire chi non è considerato meritevole.
Qualche considerazione al riguardo
Le tre (più una) necessità a cui si risponde con un’unica soluzione hanno in realtà caratteristiche diverse. Concentriamoci intanto sull’aspetto motivazionale e di punizione per sintetizzare alcune evidenze e risultati:
- Il rewarding non è un fattore motivante considerando un periodo a medio-lungo termine. Dopo un primo breve momento di motivazione aumentata, si torna velocemente ai livelli precedenti.
- Il rewarding è percepito di solito come non trasparente e ingiusto.
- L’avere un premio monetario legato al raggiungimento degli obiettivi sposta l’attenzione e l’interesse della persona verso il premio in sé rispetto alla qualità e al contenuto del lavoro.
- Il rewarding individuale è scarsamente compatibile con la collaborazione in team, quando addirittura non risulta dannoso. Nel momento in cui lavoriamo insieme, ma veniamo premiati su obiettivi diversi e/o con modalità diverse, tendiamo a privilegiare i nostri interessi personali rispetto a quelli del gruppo di lavoro.
Queste considerazioni, facilmente rintracciabili nelle aziende, dovrebbero portarci a ragionare su come cambiare e migliorare la situazione.
Quanto “costa” cambiare?
Perché facciamo ancora così fatica ad affrontare il tema e a pensare a delle alternative?
I fattori in gioco sono molteplici e, anche in questo caso, diversi in base al contesto e all’organizzazione:
- C’è una legacy organizzativa che non possiamo ignorare. Se le persone traggono abitualmente un beneficio economico dal rewarding, quella somma di denaro perde la sua qualità di “possibile e contingente” ma entra a pieno titolo nell’idea di introito annuale. Nel momento in cui cambia il processo, sia nelle modalità che nelle quantità in gioco, c’è un impatto diretto sulle persone. Inoltre non va trascurato il fatto che, a livello cognitivo, perdere una somma di denaro ha un impatto maggiore rispetto al guadagnare la stessa somma di denaro (loss aversion).
- Si ritiene ancora che sia giusto punire, ed efficace premiare, usando il denaro.
- I tool aziendali ci vincolano nell’esplorare soluzioni differenti.
- C’è bisogno di essere attrattivi, ma non sono ancora state trovate delle alternative convincenti. Vale a dire che il rewarding sembra la soluzione più applicabile a breve termine e si sceglie di non considerarne le possibili conseguenze più in là nel tempo.
- Non è chiaro quali siano gli obiettivi e le metriche legate al rewarding; e le dipendenze tra persone, team e aree aziendali non permettono di avere una separazione sufficientemente chiara tra chi è meritevole e chi è carente, tra chi è responsabile del successo e chi non ha contribuito.
Non ci sono ricette, ma alcune possibili idee da cui partire
Da dove iniziare per esplorare opzioni diverse?
- In primo luogo è fondamentale privilegiare il tema della coerenza. Se riteniamo che comando e controllo non sono più adatti al contesto di business in cui ci troviamo, dobbiamo realmente ridurre tutti i vincoli che vanno in questa direzione. La revisione del processo di rewarding diventa una priorità al pari degli spazi fisici, dei nuovi ruoli e della creazione dei team.
- Sperimentare soluzioni diverse e/o graduali: il messaggio deve essere coerente, ma le modalità si possono adattare progressivamente. Come suggerito da uno dei principi di Kanban, dobbiamo “iniziare da quanto facciamo oggi” e, in maniera evolutiva, con la rapidità necessaria, far evolvere il processo
- In ottica di vicinanza al cliente, dopo aver lavorato su alcune ipotesi alternative, mettiamoci in condizione di innescare un ciclo di feedback sufficientemente rapido con le persone coinvolte. Ossia evitiamo di lavorare mesi e mesi sul nuovo processo di rewarding per poi scoprire che la decisione presa non risponde ai reali bisogni delle persone. O che — ancora peggio — le fa terribilmente incazzare!
- Se si lavora in team, favorire la condivisione di obiettivi e premi, puntando nel tempo a modalità alternative gestite in collaborazione con il team stesso, eventualmente anche con soluzioni non solo monetarie.
- Rivedere la frequenza della premialità, passando dal tradizionale ciclo annuale a cicli più brevi con conseguente riduzione delle singole quantità in gioco per periodo
- Diminuire le quantità di denaro coinvolte. Se si ritiene che lo stipendio delle persone non sia adeguato al loro contributo, e non allineato al mercato, valutare azioni specifiche slegate dal rewarding
- Non considerare, in prima battuta, le eccezioni negative — coloro che vorreste punire —, valutando dove possibile alternative a supporto della persona o, in casi estremi, alla sua uscita dall’azienda.
In estrema sintesi, se proprio dobbiamo fare rewarding, o aggiornare il processo attuale, un buon punto di partenza potrebbe essere: meno soldi in gioco, più frequenza, più trasparenza e coinvolgimento diretto delle persone.
E se non facciamo rewarding, ma volessimo fare rewarding?
Il rewarding, come processo ufficiale, è un aspetto centrale soprattutto nelle grandi organizzazioni, ma è comunque un tema che emerge quasi sempre anche in aziende più nuove e meno strutturate.
Il mio unico consiglio è: aspettate il più possibile a introdurre un processo di rewarding o, se potete, non introducetelo affatto. Sarà molto faticoso trovare opzioni diverse che in modo più puntuale vadano a rispondere ai diversi bisogni di motivazione, attrattività e contributo; ma a lungo tendere sarà sicuramente vantaggioso.
Per la specifica parte economica, che sicuramente non coprirà del tutto il tema della motivazione, personalmente trovo molto interessanti le possibilità legate all’idea di profit sharing, in cui i team e le persone beneficiano direttamente dei risultati economici aziendali in modo più equo e trasparente. Per chiarezza: in Agile Reloaded stiamo sperimentando modalità diverse ma, nella sostanza, riconducibili al profit sharing.
Conclusioni
In questo articolo ho iniziato ad affrontare un argomento particolarmente attuale. Sono consapevole della sua criticità e che per trovare delle soluzioni di valore serva molto di più di un articolo. È necessario capire il contesto specifico, i suoi vincoli e le sue peculiarità.
Senza nessuna pretesa di fornire la risposta giusta e applicabile in ogni contesto, ho voluto però sottolineare due aspetti per me di vitale importanza: la necessità di coerenza tra le modalità con cui riorganizziamo e comunichiamo, e la natura di controllo insito nel processo di rewarding (e performance management).
Il tema del rewarding nella sua forma tradizionale è strettamente legato a quello dei soldi. È innegabile che i soldi abbiano un legame forte con una parte emotiva individuale: basti pensare a come i soldi costituiscano uno dei tasselli legati allo status e al riconoscimento. Proprio questa parte emotiva lo rende ancora più critico. In uno scenario di scarsità, in cui se vinco io devi perdere tu, si trasforma facilmente in un tabù da affrontare a porte chiuse e sigillate.
Credo fortemente che i tempi siano maturi per affrontare la questione servendoci di prospettive diverse, con la consapevolezza che ciò di cui siamo fortemente convinti, ciò che ha funzionato in passato, potrebbe non essere più attuale o per lo meno potrebbe essere solo una delle opzioni possibili.
Riferimenti
Alfie Kohn, Punished by Rewards. Mariner Books, 2000
Tom Coens – Mary Jenkins, Abolishing Performance Appraisal. McGraw-Hill Education, 2002
Capogruppo logistica presso SBB CFF FFS
4 anniCaro Luca, complimenti: bellissimo articolo. Ottimi spunti.
HR Learning & Development, Strategy and Innovation Manager, HR Consultant, Trainer & Speaker, Author
4 anniBellissimo articolo Luca