Se la vita del marketing è dietro le quinte.
Come si misura il successo (o il fallimento) di un’attività di marketing? Al di là dei diversi KPI e a prescindere dagli obiettivi eletti dalla strategia, quello che succede in una campagna pubblicitaria è affine a quanto accade durante una rappresentazione teatrale. Lì, la vicenda narrata dagli attori permette agli spettatori di immedesimarsi nelle peripezie del protagonista; qui, lo storytelling del brand crea una relazione con gli spettatori.
L’unico vero obiettivo di una campagna pubblicitaria è quello di rendere il brand un protagonista amato dall’audience. Chi guarda non deve essere attratto dalla storia in sé: la recitazione non deve essere pura mimesis, ma un escamotage affinché tutto il racconto diventi un attributo del protagonista, una sua espressione.
Tutto ciò che sta dietro a questa rappresentazione non deve essere mostrato, né suggerito o smascherato.
Ecco perché chi si occupa del marketing non deve mostrarsi agli spettatori. Deve redigere la sceneggiatura e seguire la regia senza farsi tuttavia ipnotizzare dei riflettori - senza essere tentato di avanzare verso il centro della scena.
Ciò ovviamente non significa che il marketer debba tacere quello che fa: deve semplicemente stare molto attento a non cedere al protagonismo - a lasciare cioè il palcoscenico sgombro.
Noi marketers siamo (o dovremmo essere) quelli a cui le persone e le aziende si rivolgono per diventare famose. Ma non siamo (né dovremmo essere tentati di essere) NOI quelli famosi.
Se pensiamo a maestri del calibro di Ogilvy, Pirella, Burnett, Rubicam ci rendiamo conto che si tratta di nomi che non dicono nulla al grande pubblico. Ed è normale che sia così.
Perché sono gli atleti quelli famosi.
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Un allenatore può essere bravo, preparato, più o meno severo…ma in nessun modo può giocare la partita al posto dell’atleta. Il suo compito è quello di preparare il fisico dei campioni alla competizione, ma a quella competizione non partecipa direttamente.
Allo stesso modo, una campagna pubblicitaria non può e non deve essere un palcoscenico per chi l’ha realizzata. Se lo è, significa che l’azienda sta pagando un professionista non per accrescere il proprio valore commerciale, ma per aiutarlo a diventare una star.
Per il lavoro che facciamo, infatti, la celebrità che possiamo acquisire è inevitabilmente legata alla celebrità dei brand, ed è anzi il risultato di questa.
In alcuni casi può essere un buon investimento (per certi aspetti, significa crearsi un testimonial), tuttavia è generalmente un clamoroso autogol: un’operazione che stravolge non solo l’equilibrio del rapporto tra brand e marketer, ma che addirittura priva l’azienda del valore per il quale ha pagato.
Quello che facciamo serve al brand. Ciò significa che quello che produciamo (un visual, un copy, una strategia) non sono NOSTRI, ma della marca. Una campagna efficace non è “mia”, ma è dell’azienda per cui è stata realizzata, perché è ciò che materializza il brand di fronte agli occhi degli spettatori.
È proprio qui che sta l’incanto, la magia dello storytelling.
Diventare “famosi” significa quindi sottrarre un frammento di questa costruzione alle aziende di cui curiamo l’immagine - e perciò renderle più deboli.
Il pubblico deve ricordare LORO, non deve pensare a noi.