Si chiama problema perché ha una soluzione
Una delle parole che più riecheggia in qualsiasi organizzazione è sicuramente “problema”, con tutte le sue variegate declinazioni: “abbiamo un problema”, “sarà un problema”, “non vogliamo avere problemi”. Senza contare le numerose strutture operative che hanno un problema per ogni soluzione.
La ragione del nostro pessimo rapporto con questo sostantivo va fatto risalire ai tempi della scuola, quando era in tutto e per tutto sinonimo di qualcosa che andava risolto nel tempo concesso (sempre troppo poco) e con la soluzione giusta.
Una volta lasciati gli studi, i problemi hanno continuato a perseguitarci con frequenza giornaliera e con un tasso ansiogeno ancora più elevato rispetto a quando eravamo dei “semplici” scolari.
A meno di rivoluzionarie scoperte sui meccanismi cognitivi che ci permettono di rappresentare il mondo, i problemi vanno affrontati con gli stessi strumenti che utilizziamo per pensare. Ne deriva che migliorando la qualità di questi pensieri potrà avvenire un passaggio di stato tale per cui al termine “problema” si sostituirà quello di sfida, opportunità, progetto.
I modelli mentali fra successi e disastri
Tutte le volte che scendiamo dal letto, che mettiamo in moto l’automobile, che compriamo il biglietto del treno, utilizziamo dei modelli mentali che, evitandoci la fatica di inventare ogni volta la ruota, ci semplificano la vita.
Non è un caso riferirsi ai modelli mentali alla stregua degli utensili che riempiono la nostra personale cassetta degli attrezzi della conoscenza. Va da sé che se abbiamo solo un martello, vedremo dappertutto dei chiodi da piantare. In sostanza, anche di fronte a un bullone, tenteremo di svitarlo con quell’unico arnese di cui disponiamo.
In altri termini, un modello mentale che si è rivelato eccellente per risolvere alcuni problemi non è detto che funzioni in tutte le situazioni che ci troveremo ad affrontare. Il problema – adesso è proprio il caso di chiamarlo con il suo nome – è che, siccome il modello ha funzionato, lo usiamo come una sorta di passepartout, generando inevitabilmente ulteriori guai.
Coloro che non si perdono d’animo di fronte a un imprevisto, non sono necessariamente più intelligenti degli altri, semplicemente sono “allenati” a vedere le situazioni da prospettive differenti.
Come ci riescono? Almeno in due modi.
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Alla prova dei fatti, disporre di più modelli mentali permette di adottare quello che funziona meglio nel contesto di riferimento, eventualmente anche attraverso stadi progressivi di ibridizzazione. Invece, quando la ormai famosa cassetta degli attrezzi è scarna, lo sarà anche il potenziale per trovare la soluzione.
Come è possibile arricchire la propria cassetta degli attrezzi?
In linea di massima, la curiosità è sempre “l’attrezzo” più importante. Senza l’irrefrenabile tensione a domandarsi “perché”, è molto difficile ampliare le proprie dotazioni.
Anche perché (ma va?) più cose andiamo a indagare e più si spalancherà l’abisso della nostra ignoranza, alla stregua di un gigantesco sistema di scatole cinesi. “So di non sapere”, diceva due millenni e mezzo fa quel tale di Atene.
Ad ogni buon conto, trovo sempre molto stimolanti i libri che sono lontani (a volte, anche di molto) dai miei ambiti d’interesse. Infatti, non è raro che trovi proprio in quelle letture le risposte più inattese. Specie quando si connettono, dopo circonvoluzioni immense, con le mie attuali conoscenze.
Uno dei limiti dell’eccessiva specializzazione è quello di farci vedere il sapere separato in molti contenitori a tenuta stagna. Cioè, categorie di idee in qualche modo blindate fino a costituire ambiti illusoriamente autonomi. È il modo con cui la scuola insegna (quando va bene) le varie materie (storia, geografia, matematica, chimica, etc.).
In realtà, nel mondo in cui agiamo, le informazioni non sono mai suddivise in maniera così netta. Quanta chimica, matematica e sociologia ci sono contemporaneamente dentro le piramidi?
Articolo originariamente pubblicato su www.sergiogridelli.it