VINCENZO CAMUCCINI
Vincenzo Camuccini, figlio di Giovanni Battista, commerciante di carbone di famiglia ligure, e di Teresa Rotti, nasce a Roma il 22 febbraio 1771. Incoraggiato e materialmente sostenuto dal fratello maggiore Pietro, iniziò il suo tirocinio pittorico nella bottega di Domenico Corvi, stimato maestro e accademico di San Luca a Roma.
Incline agli effetti drammatici dei contrasti di luce e d'ombra, di lontana ascendenza caravaggesca, il Corvi era tuttavia ossequiente alle soluzioni classicheggianti proposte dalla pittura del Settecento romano grazie alla preponderante autorità di Pompeo Batoni; quindi agli allievi trasmise i modi tipici di quell'accademismo, tutt’altro che dogmatico, come dimostrano gli esiti diversi di un Landi e di un Cades, condiscepoli del Camuccini. Questi, in ogni modo, alieno da nostalgie settecentesche come da umori preromantici, imboccò senza esitazioni la via del classicismo e temprò la sua cultura non tanto sugli esempi del Batoni, quanto nello studio sistematico dell'antico e del Cinquecento: studio attestato da disegni numerosissimi e anche da qualche dipinto.
Il Camuccini, a parte il “Sacrificio di Noè”, esercitazione di allievo quattordicenne, merita di essere citata, come significativa interpretazione neoclassica di Raffaello, la copia della “Deposizione”, eseguita nel 1789 per Lord Bristol.
I primi passi di Vincenzo Camuccini verso la cultura pittorica, tra il 1780 e il 1784, fu il testo le “Opere” del Mengs, edite dal D'Azara, gli scritti d’arte di Francesco Milizia e, soprattutto, la “Storia delle arti del disegno presso gli antichi” del Winckelmann, allora tradotta in italiano; ci fu anche l'instancabile attività di Ennio Quirino Visconti, con le prime esemplari illustrazioni del Museo Pio Clementino (1783-1807). Tra i pittori che in quei giorni tenevano il campo, il Camuccini seguì soprattutto Gavin Hamilton come l'interprete più ortodosso del "bello ideale"; nella scia dell'inglese, lo stesso Vincenzo si trova a dipingere, nel 1790, la scena di “Archelao con Paride fanciullo” per una volta di Villa Borghese, rinnovata in quegli anni sotto la direzione di Antonio Asprucci, considerata scuola pratica per i giovani artisti romani. Negli anni successivi un folto gruppo di schizzi a penna acquerellati e alcuni bozzetti documentano la lunga e complessa elaborazione delle opere che dovevano assicurare allo stesso Camuccini l'ammirazione del pubblico e far di lui il protagonista della pittura ufficiale a Roma; esempi sono la “Morte di Virginia” (1793-1804) e la “Morte di Cesare” (1793-1807). I citati schizzi e bozzetti sono conservati in collezioni private, nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma e presso il Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli.
Poco ci dicono oggi le due vaste, scolorite e rilisciate composizioni esposte a Napoli, nel Museo e Real Bosco di Capodimonte; invece, sono interessanti i bozzetti, che sono rapidi e vivaci nell'estrema semplificazione delle forme, e ancor più i disegni, "prime idee" che svelano chiaramente le profonde radici culturali di Vincenzo Camuccini nel classicismo del Seicento romano. Egli non giunge alla prospettiva raffaellesca per via diretta, ma tramite i dipinti del Domenichino e del più severo Poussin, così come Guido Reni gli suggerisce l'equilibrio dinamico dei gruppi; i quali, violentemente percossi da luci e ombre obliquamente proiettate, traducono in spettacolo propriamente teatrale quell'eco del naturalismo caravaggesco ancora percettibile in tanta parte del primo Settecento romano. Ne risulta una declamatoria dignità, un'aspirazione a classico rigore, che non diventa (come nel Marat davidiano) eloquente espressione di appassionato impegno, così come non la sfiora l'inquietudine fantastica dei chiaroscuri preromantici. Quegli schizzi, tecnicamente affascinanti per la bella sicurezza del tratto, riflettono, in sostanza, il clima culturale in cui Vincenzo Monti pochi anni prima aveva elaborato l'Aristodemo” e il “Caio Gracco”.
Il Camuccini abbandonò temporaneamente Roma durante la rivoluzione napoleonica del 1798; si recò a Firenze, forse su consiglio dell’amico Pietro Benvenuti, per completare la propria cultura, dove conobbe Luigi Sabatelli. Così completava quel cerchio di strettissimi rapporti e scambi di esperienze che già si era delineato con l'amicizia con il Bossi e l'Appiani. Passata la tempesta, Vincenzo Camuccini fa ritorno a Roma, dove intanto la sua notorietà cresceva, tanto da essere accolto nel 1802 all'Accademia di San Luca, dove è conservato il “Ritrovamento di Paride” (mentre il bozzetto, si trova a Londra, nella collezione di Sir Blunt). L'anno successivo Pio VII nominò il Camuccini direttore dei mosaici di San Pietro. Dal 1806 è Principe dell'Accademia di San Luca (benché non avesse ancora l'età richiesta dallo statuto). I dipinti di soggetto religioso dimostrano Vincenzo fedele agli effetti chiaroscurali del suo maestro Corvi, come la “Presentazione al Tempio”, del 1806, che si trova presso la Chiesa di San Giovanni in Canale a Piacenza.
Vincenzo Camuccini appare un brillante osservatore nei numerosi ritratti grandiosamente impostati dei personaggi più in vista nella società e nella cultura del tempo: “Thorvaldsen”, 1808, Roma, Accademia di San Luca (altra versione a Roma, collezione privata); il “Duca di Blacas”, 1819, Cantalupo in Sabina (RI), collezione Camuccini.
Con la presenza del dominio francese a Roma, a Camuccini piovvero onori e ordini. Visitò Monaco di Baviera e Parigi nel 1810 e nello stesso momento dipinse il “Tolomeo Filadelfo” e il “Carlo Magno che convoca i dotti italiani”, oggi a Montecitorio (Roma); per Carlo IV di Spagna una “Deposizione”, per l'ex ministro Godoy un “Orazio Coclite”; nel frattempo si stava cimentando con la recente tecnica della litografia (“I Dioscuri”). Fece il ritratto di “Maria Luisa di Borbone” (Firenze, Palazzo Pitti) e per la stessa dipinse “Cornelia madre dei Gracchi” (Lucca, Palazzo Ducale); seguirono le “Storie di Attilio Regolo” per Casa Capeletti, a Roma; il “Furio Camillo” del Palazzo Reale (Balbi-Durazzo) di Genova; per casa Baglioni a Perugia, nel 1812, “Ingresso di Malatesta Baglioni IV a Perugia e Astorre” e “II Baglioni riconquista una bandiera”.
Nel 1812-13 il Camuccini, con Gaspare Landi, fu tra gli artisti scelti dall’architetto Stern per il restauro e rinnovo del Palazzo del Quirinale. Nel frattempo, i soggetti classici e quelli tratti dalla storia più recente sono improntati a un eclettismo grato agli illustri committenti, mentre, col passar degli anni, si appesantisce il chiaroscuro dei dipinti sacri come “Giuditta”, 1812, parrocchiale di Alzano Lombardo (BG); lo stesso soggetto, del 1826, si trova all’Accademia Carrara di Bergamo. Ritornato a Roma, Pio VII si fece ritrarre da Vincenzo Camuccini, il cui dipinto si trova nel Museo di Tarquinia (VT), e il 12 agosto 1814 lo nomina ispettore alla conservazione delle pubbliche pitture in Roma, carica che mantenne con "encomiabile serietà" sino al 1824.
Consigliati da LinkedIn
Anche Ferdinando I di Napoli ha posato per il Camuccini, il cui dipinto si trova a Napoli, presso Palazzo Reale, mentre il bozzetto è a Roma, della collezione Camuccini; Francesco I, sul trono nel 1825, lo nominò direttore dell’Accademia napoletana a Roma e lo incaricò di riordinare la Galleria di Napoli. Nel clima della Restaurazione s'infittiscono, com'è naturale, le richieste di soggetti sacri: dal “Sant’Orso” (1821) per il Duomo di Ravenna ai “Santi Simone e Giuda” per a Basilica di San Pietro in Roma. Non abbandona i temi classici come in “Congedo di Attilio Regolo”, 1824, recentemente adattato come sovrapporta in Palazzo Altieri; un “Ritrovamento di Romolo e Remo”, 1825, Roma, Accademia di San Luca; un “Collatino celebrante la virtù di Lucrezia”, 1825, per il conte Apponyi, e nel frattempo Vincenzo Camuccini, fra il 1823 e il 1825 s'impegna in una serie di ottantaquattro litografie sui “Fatti della vita di Nostro Signor Gesù Cristo”: una significativa testimonianza dell'arte sacra durante il pontificato di papa Leone XII.
Pio VIII, appena eletto papa, volle un ritratto dal Camuccini, eseguito nel 1829, che ora si trova nella Pinacoteca di Cesena, e poi lo nominò barone; l'anno dopo gli affida il riordino della Pinacoteca Vaticana. In tale occasione, Vincenzo Camuccini fece trasportare, fra l'altro, il “Platina inginocchiato davanti a Sisto IV” di Melozzo da Forlì, dalla Basilica dei Santi Apostoli, la “Crocifissione di San Pietro” di Guido Reni e la “Comunione di San Girolamo” del Domenichino (sostituì gli ultimi due con copie di sua mano sugli altari di San Pietro in Montorio e San Girolamo alla Carità). Intanto forniva un “Miracolo di San Francesco da Paola” all'omonima chiesa di Napoli (1830-35; tuttora in loco), un “Sant’Agostino” e un “San Gregorio” a San Nicola di Catania (1833).
Di Vincenzo Camuccini è la lunetta raffigurante “San Paolo sollevato al terzo cielo” nell’abside della ricostruita basilica ostiense (1840), per la quale già aveva dipinto (1823) una “Conversione di San Paolo”, collocata sull’altare del transetto sinistro, e una “Assunta” andata però perduta. Nella collezione degli eredi, a Cantalupo in Sabina, si trova ancora una “Deposizione”, destinata al duomo di Terracina (1841), a cui si possono aggiungere una “Madonna del Soccorso” in San Pietro a Montelanico (RM) e una “Madonna del Rifugio” a Torri in Sabina (RI).
Il Camuccini fu colpito da una paralisi il 19 febbraio 1842, che però non impedì l'uso dei pennelli, per cui continuò la sua attività di ritrattista. Esempio fu il ritratto de “Il card. Benedetto Naro Patrizi Montoro”, che si trova nella Galleria Spada di Roma; “Lo scultore Giuseppe De Fabris”, del 1830, collocato alla Pontificia Accademia dei Virtuosi al Pantheon, sempre a Roma.
Nel 1841 Vincenzo Camuccini, dopo essersi occupato della divisione della collezione Barberini tra i Barberini stessi e gli Sciarra Colonna, fu tra i compilatori del catalogo dei quadri della collezione del cardinale Fesch.
Vincenzo Camuccini muore a Roma il 2 settembre 1844.
Dopo la morte del padre Vincenzo, il figlio Giovanni Battista Camuccini, grazie al ricavato di 80.000 scudi della vendita, al duca di Northumberland, della collezione di opere d’arte iniziata dal nonno Pietro e ampliata dal padre Vincenzo, acquistò nel 1855 il castello di Cantalupo in Sabina (RI). In tale castello si conservano ancora oggi, oltre alle opere di Vincenzo Camuccini, i dipinti dell’originaria collezione, autografi, reperti archeologici, armi.
In foto "Tolomeo Filadelfo nella biblioteca di Alessandria", eseguito nel 1813, olio su tela, dimensioni 263 × 337 cm; Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli.
#vincenzocamuccini