Che cos’è l’ansia? Come intervenire?
Il termine ansia viene dal latino angere, che significa stringere e già il vocabolo stesso rappresenta bene il senso di disagio vissuto da chi ne soffre.
L’ansia si manifesta con forme di tipo fisiologico come aumento del battito cardiaco, attivazione di meccanismi di attacco-fuga, aumento della sudorazione, tremori, dispnea e sensazione di soffocamento, dolore e fastidio al petto, nausea, vertigini, derealizzazione, depersonalizzazione, paura di morire.
I disturbi d’ansia comprendono quei disturbi che hanno caratteristiche di paura e ansia eccessive e i disturbi comportamentali correlati.
La paura come risposta emotiva a una minaccia imminente, reale o percepita, l’ansia come l’anticipazione di una minaccia futura.
Ciò che differenzia i disturbi d’ansia dalla normale paura o ansia evolutive è il fatto che questi siano eccessivi e persistenti rispetto allo stadio dello sviluppo.
Infatti si differenziano dalla paura o dall’ansia transitorie perché persistenti (in genere con una durata dai sei mesi o più).
Il DSM-5 riconosce all’interno dei disturbi d’ansia: disturbo d’ansia di separazione, mutismo selettivo, fobia specifica, disturbo d’ansia sociale (fobia sociale), disturbo di panico, agorafobia, disturbo d’ansia generalizzata, disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci, disturbo d’ansia dovuto a un’altra condizione medica, disturbo d’ansia con altra specificazione, disturbo d’ansia senza specificazione.
Il trattamento per i disturbi d’ansia può essere sia di tipo farmacologico che psicoterapeutico.
A livello farmacologico le benzodiazepine (ad esempio il diazepam, Valium) vengono impiegate per controllare i sintomi acuti dell’ansia. Il pericolo di questi farmaci è tuttavia dato dalla forte assuefazione che danno ed è importante che la terapia non venga interrotta bruscamente.
Anche gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) sono molto impiegati nei disturbi d’ansia.
A livello psicoterapeutico ha invece mostrato grande utilità l’approccio cognitivo comportamentale. Il terapeuta lavora per ridurre i comportamenti di evitamento del paziente e a sviluppare le abilità di coping, la capacità di fronteggiare le situazioni. Quindi modificare le false credenze, lavorare su una ristrutturazione cognitiva, trasformare i pensieri negativi, fornire al paziente le conoscenze necessarie per fronteggiare le situazioni.
La Mindfulness per i disturbi d’ansia
La mindfulness si propone come una tecnica di meditazione consapevole che aiuta chi la pratica a riprendere il controllo e ad avere piena coscienza dei propri sentimenti e delle proprie emozioni, includendo anche quelle negative che solitamente si cerca di ignorare e rimuovere.
Ecco che la mindfulness diventa anche un accettare tutte le emozioni e gli stati d’animo, positivi e negativi, entrando in stretta connessione con questi. Significa quindi osservare le emozioni negative con piena attenzione e sospendendo ogni forma di giudizio, percepirle e lasciarle esistere senza opporvi resistenze, concentrarsi esclusivamente su ciò che accade dentro di noi.
E soltanto accettando la presenza di ciò che è negativo, dell’ansia in questo caso specifico, soltanto osservandole con attenzione e accettazione degli stessi, è possibile riuscire ad affrontarli nel modo giusto.
La mindfulness quindi aiuta a ridurre l’ansia. Secondo diverse ricerche (si leggano, ad esempio, gli studi del dottor Fadel Zeidan e colleghi del Wake Forest Baptist Medical Center) la mindfulness risulterebbe anche più efficace degli ansiolitici.
Attraverso l’attento lavoro di analisi in pazienti con disturbi d’ansia è emerso, attraverso tecniche di scansione del cervello, che quando i pazienti praticavano la meditazione Mindfulness vi era un’attivazione della corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale ventromediale, ossia le aree del cervello coinvolte nelle funzioni di livello esecutivo. Inoltre, durante la meditazione si è osservata una maggiore attività nella corteccia prefrontale ventromediale, l’area del cervello che controlla la preoccupazione. Quindi in seguito all’aumento dell’attività nell’area che governa pensiero ed emozione (la corteccia cingolata anteriore) l’ansia diminuiva.
Infine, rispetto ai medicinali, chiaramente la meditazione è priva dei loro tipici effetti collaterali.
Ecco che quindi la pratica costante della meditazione mindfulness riduce i sintomi sia di natura fisica che psichica anche a lungo termine e riesce a modificare in maniera sostanziale il proprio atteggiamento nei confronti della vita proprio attraverso un approccio positivo costituito da una migliore percezione di sé e degli altri. Il tutto attraverso il lavoro di attenta consapevolezza al presente, alla focalizzazione nel qui ed ora.
Riferimenti bibliografici:
American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione DSM-5, ed Raffaello Cortina.
Braconnier A., Piccoli o grandi ansiosi? Come trasformare l’ansia in una forza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003.
La meditazione meglio di un ansiolitico, La Stampa, 06/06/2013.
Didonna, F. e Pinto, A. (2006), EMDR e Mindfulness: un ponte terapeutico tra passato e presente.
Gunaratana, H., La pratica della consapevolezza, Ubaldini Editore, Roma.
Bonecchi, A. (1991) (a cura di) Psicoterapia e meditazione, Mondadori, Milano.