Chi voglio essere, non cosa voglio fare: l’importanza del purpose personale
Definisce il nostro scopo nella vita, attraverso il quale saremo in grado di lasciare un segno duraturo, grande o piccolo che sia, nella società.
Da piccoli una delle domande che ci vengono rivolte più spesso è: “Cosa vuoi fare da grande?” Crescendo i nostri sogni di bambini si scontrano con la quotidianità e le nostre velleità di diventare presidenti, ballerine o astronauti vengono spesso abbandonate. La domanda, tuttavia, apparentemente banale, nasconde un senso profondo: il senso di cosa vogliamo fare per raggiungere il nostro scopo nella vita, ciò che oggi viene indicato come purpose.
Il purpose è sulla bocca di molti, soprattutto perché molte aziende lo stanno usando in sostituzione (o in integrazione) delle ormai obsolete mission e vision aziendali. Noi siamo entrati in contatto la prima volta con il purpose due anni fa, partecipando a un corso organizzato da un collega (Andrea Notarnicola) esperto dell’argomento. Al termine della giornata era chiaro che il purpose fosse qualcosa di molto intimo e personale. Non a caso, è stato in grado di suscitare in noi emozioni molto forti.
Volendo tratteggiare una definizione, potremmo indicarlo come il nostro scopo nella vita, attraverso il quale saremo in grado di lasciare un segno duraturo, grande o piccolo che sia, nella società. Consideriamolo un viaggio dentro di sé, alla ricerca di un qualcosa che ci fa sentire capaci di produrre cambiamenti, contribuendo a scenari più grandi di noi. Per questo il purpose non è innato, ma in continua evoluzione. Va cercato, costruito, può cambiare volto nel corso del tempo e a seconda dei contesti in cui viviamo.
Non solo: la ricerca del proprio purpose ci permette di lavorare in maniera più coinvolta e coinvolgente: in un celebre Ted Talk lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi definisce flow lo stato che ogni essere umano è in grado di raggiungere quando è impegnato in qualcosa che lo appassiona e lo motiva nel profondo. Il flow permette di raggiungere uno stato “estatico” in cui la soddisfazione è molto alta, ma è anche uno stato dinamico in continua evoluzione, in cui le nostre competenze sono in gioco, sempre migliorabili.
Proprio a questo riguardo, un aspetto ancora poco esplorato di ciò che ci motiva nel profondo è la capacità di portarci fuori dalle nostre zone di comfort, dotandoci di capacità che in situazioni normali non riusciremmo a tirare fuori. Pensateci: introversi che si trasformano (temporaneamente) in istrioni coinvolgenti, persone tipicamente superficiali che in certi contesti diventano capaci di concentrarsi per ore e ore dimostrando un pensiero critico inaspettato.
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Secondo Brian Little, ex docente di psicologia dell’Università di Harvard, questo accade perché stiamo seguendo quelli che lui definisce i nostri core personal project: progetti e attività che abbiamo a cuore e “sentiamo nostri in profondità”. In altre parole, quando una persona sta facendo qualcosa di tangente o centrale al suo purpose personale, diventa adattabile e flessibile su ciò che richiede il contesto. I core personal project rientrano in quella che Little ha battezzato Free Trait Theory. Secondo questa teoria, il carattere di ognuno è costituito da tratti innati e prefissati, e da altri liberi di mutare. Quando ci muoviamo dentro il purpose, i tratti liberi entrano in vibrazione con la situazione e ci mettono nella condizione di affrontare sfide e difficoltà al meglio, attingendo a risorse personali solitamente lontane da noi.Susan Cain, nel suo famoso saggio Quiet lo conferma: “La Free Trait Theory spiega perché un introverso può organizzare un party a sorpresa per la moglie estroversa di cui è innamorato o entrare a far parte del consiglio di classe nella scuola della figlia. Spiega come sia possibile per un manager accomodante dimostrarsi duro e intransigente in una trattativa d’affari per lui fondamentale. Ci dimostra come una persona tipicamente analitica e metodica possa diventare improvvisamente creativa dentro un certo team”. E ovviamente, spiega come uno zio burbero, arrogante e astioso si trasformi nella persona più dolce e remissiva dell’universo quando va a prendere un gelato con la nipotina preferita.
Non a caso è Brian Little l'ideatore della teoria: è sempre stato un introverso fino al midollo. Quando si trova in mezzo alla gente fatica a chiacchierare del più e del meno per cinque minuti. Eppure, era uno dei professori più amati dell’intera Harvard, tenendo lezioni con tale passione ed energia che, come ricorda Susan Cain: “durante le ore di ricevimento, gli studenti si accalcavano in corridoio come se Little regalasse biglietti per un concerto rock”.
Perché? Perché Little ama nel profondo aprire la mente dei ragazzi e aiutarli per il loro futuro: è un aspetto chiave del suo purpose personale. Rileggendo la presa che ha su di noi il purpose alla luce di uno dei più citati consigli shakespeariani: “Sii sempre fedele a te stesso”, emerge anche un’altra cosa. Se nel nostro lavoro o nella nostra vita non riflettiamo mai il nostro purpose, non daremo mai il meglio di noi stessi. Diventeremo aridi, la versione peggiore di noi stessi. Degli sterili, cinici, infelici.
(Ri)trovando il purpose invece, (rin)salderemo la fedeltà a noi stessi, arrivando a cambiare se necessario alcuni tratti caratteriali e sfruttando capacità inaspettate in modo sorprendente.La risposta a quella domanda innocente che ci rivolgono da bambini cela un’altra domanda, sicuramente più insidiosa, ma più appassionante: perché il punto non è tanto cosa voglio fare da grande, quanto chi voglio essere.
Sales Account Manager presso Warner Bros Discovery
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