CREA ONLUS: i nostri primi 25 anni di attività
Mary Delaney Cooke/Corbis via Getty Images

CREA ONLUS: i nostri primi 25 anni di attività

C’è davvero la malattia mentale?”, una domanda bizzarra per chi, come la cooperativa sociale CREA, si occupa dal 1998 di servizi socioriabilitativi ed educativi in strutture di ordine psichiatrico pubbliche e private. Una domanda che lascia intendere come CREA guardi alla malattia mentale: rispetto e tenerezza , nessun dubbio circa l'essere tutti normali, ognuno a modo proprio, nessuna verità in tasca se non quella che ogni essere umano vada messo al primo posto, avvicinato in punta di piedi, interpretato attraverso le sue peculiarità. Ognuno, in fondo, è nel suo viaggio, ognuno è diverso, canta Vasco Rossi, ma l'essere “diverso” è un valore identitario, è addirittura un diritto e “quando perdiamo il diritto a essere diversi, perdiamo il privilegio di essere liberi”, ricorda Charles Evans Hughes.

Rimanere orientati alle persone, alla loro umana umanità, non può, allora, prescindere dall’ascoltarle sempre come se fosse la prima volta. Ecco perché il meeting del 14 aprile 2023 presso Assolombarda Monza, dove CREA ha celebrato i suoi primi 25 anni di attività, si è aperto con un Dialogo Aperto tra gli utenti che negli anni hanno frequentato i servizi offerti da CREA (Comunità Terapeutiche, Urgenza Psicologica, Centro Clinico) e gli operatori che li hanno accolti. Un Dialogo Aperto, certo, perché è quello che non ha risposte preconfezionate, non ha ricette valide per tutti, è quello che lascia l’ideologia sullo sfondo, curandosi solo di coltivare il desiderio di abitare la vita, ben sapendo che la salute fiorisce dove gli abiti sono il più possibile tagliati su misura, dove la soggettività può stare comoda.

"Open Dialogue" è anche una cultura, quella che Beppe Tibaldi, primario di psichiatria a Carpi, ha promosso sul territorio italiano e che CREA ha fatto sua, un approccio che guarda alla condivisione di esperienze come a un valore, che strizza l'occhio alla de-prescrizione degli psicofarmaci (perché la camicia di forza chimica è davvero una cura?), alla valorizzazione delle esperienze di coloro che l’esperienza di presunta malattia mentale la fanno sulla propria pelle. Il "discorso dialogico" punta il faro sulle storie positive, si spende per eludere la distorsione cognitiva che colpisce i professionisti della salute mentale quando scivolano nel pessimismo prognostico: si rischia di non de-prescrivere se non si ha fiducia nell'evoluzione positiva di un paziente, si rischia di pensarsi con la verità in tasca e scegliere cosa sia bene per lui, senza interpellarlo.

La co-costruzione dei processi decisionali rimane l'elemento chiave dei percorsi dialogici: stare alla larga da quel paternalismo democratico che tanto danno ha fatto alla salute mentale, e probabilmente alla salute in generale, rimane la meta a cui tendere. Prendere decisioni per i diretti interessati, diretti interessati assenti, è un atteggiamento miope, borioso, egoico e anticostituzionale (legge 219/2017). Fare prevalere i discorsi generali-universali sulla considerazione della dimensione singolare della vita e della sua umana umanità non può essere la strada. Ascoltare, accompagnare, esserci lasciando decidere, in una parola autodeterminazione, è la posizione che anche PROBABILITA'  ha fatto sua. Trattasi di una realtà che, in partnership con CREA e con la cooperativa sociale Limen, intende concentrarsi sulla disabilità cronica o temporanea, facendo di un'ampia expertise di professionisti una task force a fianco del sistema sanitario assistenziale, accogliendo la grande opportunità degli ospedali di comunità: Se uniamo le forze, le forze si moltiplicano.

In questo scenario fatto di partecipazione e interazione, la "festa" di CREA si chiude con un breve momento teatrale, dove ancora una volta la fatica di vivere apre la scena e sta sulla scena con tutta la sua presenza ingombrante. Perché la fatica di vivere è fatta così, chiede protagonismo e, sebbene spesso non abbia nemmeno una ragione apparentemente concreta per esserci, vuole ascolto. Nei panni del protagonista di "Da dove sto chiamando", di Raymond Carver - che sulla sua pelle ha vissuto la fatica di essere un alcolista - Giovanni Castaldi si chiede: "Perché ho cominciato a bere, nonostante la mia vita avesse contorni perfetti…una bella moglie, due figli…?".

Quando mancano le parole, quando tutto appare compromesso, quando tutto diventa impossibile da sopportare, quando c’è troppo dolore, quando si è alla fine delle proprie forze, quando muore qualcosa in cui abbiamo profondamente creduto, allora… interrompere i legami con il mondo, tagliare la corda, spegnere tutto, appare la soluzione. L’unica.

Il disagio arriva in sordina e subdolamente riempie tutto lo spazio.

Perché? Non c'è mai una risposta precisa.

E chi assiste, chi c'è e guarda, chi sta intorno, cosa può fare di fronte al disagio che incombe?

Tutti i presenti hanno provato a dare una risposta, la loro, perché la condivisione apre nuovi orizzonti interiori. Non più soli, né i soli. La condivisione lenisce la condizione di straniamento.

"Ascoltare la sofferenza altrui, tirandosi indietro".

"Abbandonare l'assillo di tenere tutto sotto controllo".

"Accogliere l'incertezza, imparare ad abitarla".

"Accettare i tempi biblici che ingabbiano la malattia, che rallentano la cura”.

“Accettare e basta. Stare".

C'è davvero la malattia mentale? E se la psicosi altro non fosse se non vita in un mondo parallelo? Allora, si dovrebbe stabilire il diritto ad essere psicotici.

 

"E' un modo di vivere le emozioni, sfuggire alla precarietà, al dolore, che è un'emozione innata ed è più facile da aver dentro rispetto al piacere...io ne ho fatti una marea di ricoveri", dice un uomo tra il pubblico.

"Quando ci si scompensa? Ho avuto tre crisi psicotiche, l'ultima nel 1998, star bene è anche un dovere, quindi poi io ho cercato tanto per stare bene... E adesso sarei guarita? Ma allora prima ero ammalata? A volte ci si scompensa anche quando si ha troppo…una bella moglie, due figli splendidi... c'è un mistero dietro la malattia", aggiunge una donna, molto nota nel panorama lombardo della cura psicologica, che ringrazio per la lezione di vita che mi ha fornito con la sua trasparenza. A testa alta. Sempre.

 

La nostra vita appare circondata da fratture, perdite, lacerazioni, ferite, fantasmi. Non a caso Freud definiva il divenire della vita come una serie successiva di tagli. E il senso del mondo, a volte, viene meno.

“Dalla psicosi non si guarisce mai”. Forse no. “C'è sempre una profonda solitudine che non può essere protesizzata con belle mogli, figli splendidi, beni vari. Troppa realtà rischia, a volte, di appesantire l'essere umano”, aggiunge uno degli ospiti. Pretendere di normalizzare è un sopruso: ci vuole rispetto. Nella vita abbiamo solo bisogno di imparare a rispettare cose, situazioni, persone.  

"E' una trappola usare la parola 'malattia’”, conclude Cersosimo, "desease, dicono gli americani, e va meglio, perché sta per disagio. Dal 1978 non si è ancora sciolto lo stigma, capita che i vicini di casa abbiano paura... Noi cittadini abbiamo un'influenza fondamentale sulla cultura della malattia psichiatrica". Appunto. Abbiamo voce in capitolo. Postilla da non scordare.

Avanti tutta.



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