Fabio e la strada che ci manca
“Gioire e fare premiazioni, brindisi e balletti quando un ragazzo di ventiquattro anni, uno di noi, è morto sulla strada durante la corsa? Qualcuno deve dare un segnale per iniziare il cambiamento. Serve un’azione dimostrativa”. Bjarne Riis avrebbe voluto correre comunque, lottava per la vittoria finale contendendola a Indurain, ma Tony Rominger, vincitore qualche mese del giro d’Italia, diede impulso al sentimento generale espresso da tutti, Bugno e Cassani in primis.
Mercoledì 19 Luglio 1995, la tappa del Tour de France da Tarbes a Pau si trasformò in 237 chilometri di corteo funebre, otto ore sotto il sole cocente. Miguel Indurain disse: “La vita è dura: fuori ci sono altri uomini che muoiono per il loro lavoro ma nessuno spende per loro parole o righe di inchiostro”.
È l’ennesima vittima di quello che ora può sembrare un “altro ciclismo”, ma che in realtà è quello che abbiamo vissuto tutti da piccoli. Niente casco, visto come un fastidio, soprattutto col caldo, e grossi rischi ad ogni caduta: il caschetto diventerà obbligatorio solo nel 2005, dopo due anni di transizione e un'altra vittima nella Parigi-Nizza 2003.
Pensare che subito l’incidente il suo manager disse: "Non ha senso quello che dite sul casco. È caduto con il lato destro della testa e ha colpito un palo di cemento, il suo casco era nella parte posteriore della mia macchina, la maggior parte dei ciclisti non lo indossava perché faceva troppo caldo. Il ciclismo non è la Formula Uno. Ci sono molti rischi ma questi uomini sono professionisti."
A seconda del coraggio, della loro abilità tecnica e delle condizioni meteorologiche i ciclisti possono percorrere le curve anche a 80 km/h. E solo due anni prima gli stessi ciclisti protestarono con successo per avere il diritto di scegliere se indossare il casco o no.
Tony Rominger sembrava che se lo sentisse. Già con la maglia rosa indosso al Giro d’Italia ne parlava spesso, esprimendo preoccupazione per la sicurezza dei ciclisti nelle gallerie stradali e non solo: "Sono preoccupato per la sicurezza perché i ciclisti gareggiano molto più velocemente in questi giorni, la sicurezza diventa un fattore ancora più importante. Si dovrebbe avvertire di più e meglio, ci vuole più segnalazione."
Certo non era il primo decesso al Tour, ma i numeri erano comunque bassi, tre in ottant’anni di storia e il pensiero comune era più quello di Thevenet, corridore anni ’70: “Ci sono stati maggiori rischi nel finire gli sprint a 60 km/h, non è una questione di velocità o di discese in montagna, ma i rischi che vengono presi".
Rominger era corso al parcheggio delle squadre per guardare sull’autobus della sua MAPEI le immagini televisive. Lo convinsero a spegnere ma poco dopo volle parlare alla stampa. "Non sapevo cosa fosse successo fino alla fine, ma forse avrebbero dovuto dircelo durante la premiazione," disse a malapena. "Quando ho oltrepassato il traguardo, mi hanno detto che qualcuno era morto, sono stato tra i primi a saperlo. Penso che in tal caso, anche se non fermi la gara, almeno non dovresti fare la premiazione del podio. C'è sempre il rischio di schiantarsi, ma cerchi di non pensarci: ho una famiglia e ho una vita fuori dal ciclismo, le corse diventano sempre più pericolose man mano che le gare si fanno più veloci, forse dobbiamo prendere in considerazione più precauzioni di sicurezza."
Seguì una lunga pausa. "Ma dovrebbero mostrare rispetto per lui e la sua famiglia, non so perché debbano mostrare più e più volte le immagini dello schianto in TV", si chiedeva Rominger, la sua voce tremante.
"Lo sapevi che aveva un bambino di tre mesi?" si interpose un giornalista austriaco. Era troppo per il padre di tre figli, la cui faccia era costernata, i suoi occhi si riempivano di lacrime ancora una volta. "È molto brutto che non ci sia stato detto durante la gara: dopo questo tour voglio smettere."
Il giorno dopo Tony Rominger, come tutti i membri del team Mapei-GB, indossava un piccolo nastro nero come segno di rispetto. “Lo Conoscevo a malapena, ma la sua morte mi ha toccato profondamente, come tutti. Queste sono le cose che ti fanno davvero fermare e riflettere ".
Il peggio è stato sicuramente il fallimento di tante, troppe persone nel riconoscere che di fronte a una tragedia del genere il Tour de France è solo una gara ciclistica, e il maneggio barbaro e strumentale delle immagini da parte di molti media. L’organizzazione del Tour era dominata da ex professionisti e ci si sarebbe aspettato che capissero che alla luce di un simile incidente, dovevano seguire azioni di forza e rispetto.
Ci pensarono i corridori, i suoi colleghi, Rominger per primo. Nel giorno della tragedia, gli organizzatori del Tour sono stati vergognosi, non informando ufficialmente i ciclisti e ostinandosi a tenere le cerimonie delle vittorie, con un incredulo Eddy Merckx che scuoteva la testa.
Ma poi i corridori stessi hanno preso il sopravvento. Il giorno successivo, in quella che avrebbe potuto essere una tappa decisiva, fu deciso che in omaggio al loro compagno il gruppo avrebbe pedalato ma senza correre. Tutti i premi in denaro dal palco sarebbero stati devoluti alla vedova e al figlio, una somma che sarebbe stata eguagliata dalla Tour Society stessa. E, in un tributo incredibilmente commovente, i restanti ciclisti di Motorola sono stati autorizzati a rotolare in testa al gruppo al traguardo e tagliare la fila all'unisono, con il compagno di stanza Andrea Peron a tagliare per primo il traguardo.
Non sono un appassionato di ciclismo, iniziai a seguirlo proprio in quegli anni, complici le bici da corsa che vedevo nel garage del mio futuro suocero e gli epici racconti di mio zio su Bartali e Coppi, su Merckx e Bobet. Quel giorno, quella tappa, la stavo guardando e non la dimenticherò mai. L’incidente, le immagini e poi la voce di De Zan e il silenzio di Adorni: “Scusate la mia commozione ma il nostro computer ha appena annunciato che Fabio Casartelli è morto”.
Il giorno dopo presi la Gazzetta dello Sport.
La cronaca della tragica giornata – di Pier Bergonzi.
TARBES (Fra), 18 luglio 1995 - Fabio ha chiuso gli occhi. Per sempre. E' lì disteso sotto un drappo nero, ha il volto raccolto dentro un rigido bendaggio, appena reclinato verso sinistra. Fuori c'è il caldo afoso dei Pirenei, dentro la "chapelle ardente", c'è il gelo. Non è l'aria condizionata: è che vengono i brividi solo a pensarci. Le piastrelle in ceramica giallo e nocciola sembrano una lastra di ghiaccio, sopra di lui c'è un Cristo color oro più triste di un crocefisso.
Guardi il volto di Fabio e pensi: no, non è vero, non può essere vero. Come si può morire in bici a 25 anni, in un tranquillo pomeriggio d'estate? Sono parole vuote, perché Fabio è morto davvero, ma in questi casi i pensieri si impongono senza logica. Sono le stesse parole disperate della moglie Annalisa quando Massimo Testa, il medico della Motorola, le ha telefonato la notizia. "No, non è vero. Dimmi che non è vero...". Ci vuole un bel coraggio a raccontare attraverso un filo che Fabio Casartelli è morto, in una curva, dopo 35 chilometri della quindicesima tappa del Tour de France.
ORE 11.50 - Il gruppo aveva appena scollinato il Col de Portet d'Aspet e si era lanciato nella discesa verso Ger-de-Boutx. Si va giù, come sempre, a velocità folli. C'è una curva a sinistra, qualcuno sbanda, Dante Rezze finisce diritto giù nella scarpata. Perini, Museeuw e Breukink riescono a rialzarsi e ripartire. Baldinger resta a terra. Casartelli picchia la testa, dalla parte sinistra, contro un blocco di cemento che limita la strada. E' senza casco. Fabio rimane immobile, la testa appoggiata all'asfalto infuocato e intorno una pozza di sangue. La situazione appare subito in tutta la sua drammaticità. Philippe Buovet, la voce di radiocorsa, annuncia una caduta grave. Il dottor Porte, medico del Tour, si accorge che Fabio ha perso conoscenza, ma il cuore batte ancora.
Fabio Casartelli, medaglia d’oro alle olimpiadi di Barcellona 1992, lasciava quel giorno la moglie e il figlio di due mesi, vittime indifese della cultura del ciclismo in quegli anni. Non solo il casco ma anche l’organizzazione, la sicurezza non era al primo posto e se oggi è cambiata, è perché è nato un movimento interno che ha preteso nuove misure, prese di posizione come quelle di Tony Rominger che ci mise faccia e impegno.
Fabio Casartelli è sempre vivo nella nostra memoria e nel nostro agire quotidiano grazie alla Fondazione che porta il suo nome e che, per le parole del suo presidente Pierluigi Marzorati, indimenticabile campione di basket: “Molto è stato fatto ma davanti a noi abbiamo un lungo cammino ancora da percorrere se vogliamo, come vogliamo, che il ricordo di Fabio, campione ma ancor prima uomo, viva per sempre. Quando mi è stato proposto l’incarico di presidente della Fondazione Fabio Casartelli, ho ritenuto giusto accettarlo perché ho pensato fosse il modo migliore per esprimere la mia riconoscenza ad uno sportivo al quale ero legato da una forte anche se purtroppo breve amicizia. In ricordo di Fabio ritengo sia un dovere di tutti noi Amici della Fondazione, occuparci di prevenzione e sicurezza, diffondendone principi e norme soprattutto tra i giovani proprio partendo da una riflessione sull’esperienza del nostro indimenticabile Campione“.
È un dovere di tutti noi occuparci di prevenzione e sicurezza, diffondendo principi e norme, e cambiando il modo in cui in questo paese la sicurezza viene percepita e vissuta. E' la strada che ancora abbiamo da percorrere.
Perché Fabio viva per sempre, e con lui tutte le altre vittime.