Informazione o intrattenimento?
Da Adbusters

Informazione o intrattenimento?

Da quando l’informazione e l’intrattenimento si sono mescolati fino ad unirsi in un amalgama indistinto, tanto da formare addirittura un neologismo come infotainment abbiamo perso completamente la percezione, o meglio, la consapevolezza che la comunicazione è condivisione di conoscenza. Ci siamo dimenticati che la conoscenza è potere, ma soprattutto, scusate se cito l’uomo ragno, ci siamo dimenticati che un grande potere presuppone una grande responsabilità.

Gli spettatori, non più cittadini ma consumatori, sono distratti? Come facciamo a trattenerli per fargli comprare i formaggini che si tagliano con un grissino, le merendine meno zuccheri e più bontà o l’automobile del futuro? Beh, spettacolarizziamo le notizie, abbondiamo con i luoghi comuni che piacciono sempre e sono così facili da condividere, semplifichiamo sempre, fino a banalizzare anche i concetti più pericolosi. Soffiamo sulle paure, indugiamo nel dolore, diamo consigli paterni ma senza prenderci le responsabilità che spettano ai genitori quando parlano con i propri figli.

Così, quando un giornalista televisivo, su un’importante rete nazionale, commentando uno stupro subìto da una ragazza di 19 anni, se ne esce con il consiglio non richiesto di non bere se non si vuole essere vittime di violenza, nessuno si sente responsabile per aver contribuito alla colpevolizzazione della vittima. Nessuno si sente in dovere di chiedere scusa, di dire sì ho commesso una leggerezza e ho detto una banalità della quale mi sento responsabile. Non lo fa il giornalista, evidentemente inconsapevole del potere derivante dal proprio ruolo di giornalista (o conduttore) televisivo, né lo fa il suo editore che ha una responsabilità in vigilando ancora più importante.

Come ci comporteremmo nelle nostre organizzazioni se un dipendente dicesse qualcosa che mina la reputazione dell’azienda nell’esercizio del proprio ruolo? Probabilmente lo richiameremmo subito cercando di capire se ha piena consapevolezza del ruolo e del potere e delle responsabilità che da esso derivano e gli chiederemmo di agire di conseguenza, scusandosi e rimediando, fino a chiedergli le dimissioni nei casi più gravi.

Mi chiedo quindi se GianBruno sia consapevole del potere che gli è stato affidato nel condurre un programma di informazione, o se, pur considerandosi un giornalista, si senta completamente deresponsabilizzato nel ruolo che ricopre. In fondo deve solo intrattenere il pubblico, il consumatore, fra uno spot e l’altro: non è importante ciò che dice, anzi, più è superficiale, banale, ricco di luoghi comuni, più sarà facile ascoltarlo e restare sullo stesso canale.

Credo, invece, che un comunicatore e ancor più un giornalista, figuriamoci poi un giornalista che per un gioco del destino sia addirittura compagno della Presidente del Consiglio in carica, debba porre la massima attenzione non solo nella scelta delle informazioni che dà e degli argomenti che tratta, ma anche del modo in cui li tratta e del linguaggio che usa. Oramai c’è una letteratura così ampia sul linguaggio da usare o da non usare per parlare di violenza sulle donne o di femminicidi, che un esperto di comunicazione non può dire di essere stato frainteso o di avere semplicemente detto una cosa banale. Affermare questo vuol dire negare la responsabilità del proprio ruolo, minimizzarne l’importanza, affermare che uno vale uno: un giornalista che gestisce l’informazione su un importante canale televisivo e una persona qualunque che dice la sua al bar.

In fondo il suo editore ci ha sempre detto che dobbiamo smetterla di gridare al lupo al lupo. Ci ha raccontato la favola tranquillizzante che i media non condizionano i comportamenti degli spettatori: nessun potere, nessuna responsabilità.



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