La guerra tra imprese francesi e italiane non è un solletico tra ambasciatori
La guerra tra imprese francesi e italiane non è un solletico tra ambasciatori.
Avendo partecipato e portato qualche dossier ad almeno un paio di Forum Economico Franco-Italiani mi sono sentito un po’ preso in giro da questo articolo. Perché?
Primo.
Le imprese italiane rodate sanno bene che il commercio estero è una guerra, in particolare quello con la Francia. Se il rapporto con i tedeschi è un’amicizia obbligata perché loro hanno bisogno della nostra subfornitura di qualità e noi della quota di export che ne deriva, per la Francia non è esattamente la stessa cosa. Loro comprano, noi compriamo, ma molto meno.
Loro vendono da noi (con la loro GDO, per altro sempre in difficoltà in Italia, soprattutto in confronto alla tedesca) e noi vendiamo da loro, senza una nostra GDO, ma portando semplicemente i nostri prodotti sugli scaffali. Con fatica. E si vedrà perché.
Quindi con trasparenza e realismo bisogna dire alle nostre imprese meno informate che il commercio estero non si fa con gli accordi politici, che vengono sempre dopo quelli d’affari. Per fortuna. Quindi che diffidino della diplomazia che si fregia dell’aggettivo “economica”. Qualsiasi sia il colore politico che la dipinge.
Secondo.
Un’associazione di categoria può certamente essere d’aiuto, in particolare quando le imprese fanno fatica a difendersi da sole, perché tante e piccole. Come per altro fanno magistralmente i francesi in ogni contesto europeo, per esempio quando c’era da far la guerra per le quote latte.
In questo caso specifico bisogna far notare che la nostra associazione industriale di punta va a far la guerra diplomatica e commerciale con un fantastico tridente d’attacco: Gabriele Galateri di Genola, noto manager da salotto che l'unica guerra che conosce è quella del Subbuteo; Giovanni Castellucci, la cui reputazione è minata dalla brutta storia del Ponte Morandi gestito dall’azienda che lui governava, e Lisa Ferrarini, imprenditrice di un’impresa salvata di recente dopo lunghi tempi di crisi e che ahimè propose di aiutare l’agroalimentare italiano creando un ministero dell’alimentazione. Tenera.
Terzo.
I rapporti commerciali, economici e finanziari tra Francia e Italia non si possono definire buoni. La Francia tiene per le palle gli ultimi luoghi della finanza italiana (Generali, Mediobanca, Unicredit). Viene da acquisizioni importantissime nel manifatturiero (moda, tessile, food, occhialeria) il cui elenco è lunghissimo e con nomi di prim’ordine. Ha le mani su decine di impianti idroelettrici italiani tramite Edison (in tempo di siccità puoi sempre decidere se spegnere turbine italiane o francesi…). Il Presidente Macron amava chiamare “proconsoli” i manager francesi che colonizzano le imprese italiane, almeno fino a ieri, quando il suo piglio napoleonico ha ceduto il passo. E la Gdo apre e chiude i rubinetti dei prezzi dei prodotti delle aziende italiane sugli scaffali francesi.
Esempio? Il ritiro dell’investimento di Barilla, ben lontano dai giornali italiani. Un anno fa Guido Barilla si presenta proprio dal Presidente Macron annunciando di fermare il miliardo di investimenti che l’azienda aveva in programma in Francia per i 5 anni a venire. Motivo? La Gdo francese vende i prodotti con promozioni e sconti che rendono impossibile la permanenza del marchio in Francia e quindi il ritorno degli investimenti.
Quindi?
Non scriviamo che la Francia “resta più aperta di come la si descriva a volte in Italia”. Dipende come la descrivi. E cerchiamo manager e giornalisti consapevoli che il commercio estero è una guerra della concorrenza che si vince con le armi dei prezzi e della qualità, con la finanza per fare acquisizioni strategiche, e con la distribuzione organizzatissima. Molto raramente con accordi siglati davanti alle tazzine di ceramica del Trianon di Versailles.