LA MANO
Ciao zio Tullio, oggi ti scrivo per ricordare quella fantastica mano che tu mi davi quando ero piccolino. Mi portavi dal giornalaio e dai benzinai a parlare di calcio. Ricordo l’edicolante, a volte diceva che oltre al calcio un giorno mi sarei interessato anche di altro, mostrando delle copertine con su ragazze a seno nudo ed io e, penso, anche tu ci imbarazzavamo un poco, ma era troppo il piacere di parlare con lui di pallone. Poi i due benzinai, due veneti se non ricordo male, erano sempre gentili, pacati. Tu gli dicevi che tua sorella lavorava a Cortina, loro, se non sbaglio, erano di Belluno. Ma il centro del discorso era sempre il football e l’Inter in particolare. Quell’Inter di cui io dividevo la passione con te, seguendola e soffrendo. Baruffavamo con milanisti e juventini, tutti erano contro l’Inter, noi eravamo i buoni, gli altri i cattivi. Il massimo della mia gioia era quando quella mano mi portava a vedere le partite e quelle delle serie minori e giovanili in particolare. Li era solo gioia, non c’era la tensione del tifo. Andavamo al campo Colombo e tu mi spiegavi chi e come giocava. E quella mano mi guidava a diventare un buon calciatore. Ero mingherlino, con un solo piede, il destro e neanche con un tiro forte, non ero particolarmente veloce, ma sapevo giocare. Quella mano mi aveva insegnato a giocare a testa alta, davo via sempre la palla di prima, non mi sbilanciavo mai in avanti, ero un mediano di copertura che tappava i buchi lasciati dalle punte, davo equilibrio alla squadra ed ero fortissimo di testa. Tutti mi volevano, tra i bambini ero sempre tra le prime scelte. Ero stato selezionato dalla Pejo, una sottosquadra dell’Inter per giocare nei loro pulcini. Quella mano mi ha dato la sicurezza che ce l’avrei fatta. Ricordo benissimo che quella mano rimase malissimo quando le comunicai che cambiavo sport, che avevo un nuovo amore, forse perché pensavo che quella mano mi avesse lasciato. Ti eri sposato quando avevo circa 8/9 anni e adesso a 12, tu aspettavi un figlio. Per circa 10 anni non seguii più il calcio, sapevo a malapena chi aveva vinto il campionato, adesso solo e soltanto pallacanestro. Ma la passione per lo sport che mi aveva instillato quella mano aveva fatto di me un buon/ottimo cestista. Pensa che quando ero alle elementari ero una schiappa tremenda nello sport dei canestri. Non ho capito che quella mano non mi ha mai abbandonato, e io per un periodo l’ho persa, dimenticata. A pallacanestro ero completamente diverso come giocatore, tutto spettacolo, poco di squadra. Avevo perso la mano che mi dava sicurezza, quindi dovevo abbagliare tutto e tutti e dimostrare a quella mano che ce l’avrei fatta! Che la scelta era giusta. Ma dimenticandola fallivo tutti gli appuntamenti importanti. Perdendo la mano avevo perso la sicurezza. Ero un gran giocatore di strada, una star in quei playground dove ero conosciuto, amato per i numeri, ma un fallimento nei campionati di lega, in questi giocavo molto al di sotto delle mie possibilità, mi nascondevo, avevo paura. E anche fuori dai miei campetti o con i più grandi, fallivo. Sapevo di essere forte ed era frustante capire che non rendevo come avrei potuto. Ma io non mi ricordavo più di quella mano, che mi avrebbe incoraggiato, consigliato, perdonato. Ma ora l’ho riportata alla mia memoria, quella mano è ancora molto importante per me. Quella mano, con quella del nonno e con il Lorenteggio sono stati i miei alimenti positivi. Sono la mia naturalezza, sono la mia sicurezza, sono la mia generosità. Mi piace adesso immaginarmi accompagnato da entrambe le mani, una cosa di cui non ho ricordo, o c’era l’una o l’altra. Ma ora mi piace vedermi piccolino in mezzo a nonno e zio tenuto per mano. Ogni tanto mi giro a destra, ogni tanto a sinistra e felice mi rassicuro che mi stanno accompagnando per la mia strada.