La morte di Aldo Turchiaro

La morte di Aldo Turchiaro

E' morto il 30 agosto scorso, anno 2023, nel silenzio più assordante uno dei grandi maestri della pittura italiana, “orgoglio tutto calabrese”, figlio della città di Cosenza, da tantissimi anni adottato e coccolato da Roma Capitale, e da sempre instancabile viaggiatore per il mondo. Ma la notizia è diventata pubblica solo ieri grazie ad uno dei suoi amici personali più cari, il giornalista critico d'arte Rosario Sprovieri che dopo averlo cercato per mesi ha scoperto che il grande artista se ne era andato per sempre. Le sue opere sono oggi nei più grandi musei del mondo.Aveva 94 anni, e un anno fa su #CalabriaLive lo avevo raccontato così.

di Pino Nano

Una vita intera sulla strada maestra dell'arte con la A maiuscola, in perfetto unisono con il sentire di Bernardino Telesio che diceva: “L'uomo per comprendere la natura, essendo esso stesso natura, non deve far altro che affidarsi, quasi abbandonarsi ai sensi che gliela svelano”. Aldo Turchiaro, come per il filosofo cosentino, sa che la conoscenza dell'universo è essenzialmente sensibilità, comprensione del creato. Per questo le sue opere sono la visione armonica e melodiosa del palpitare di questo regno comune fra umani, animali natura acqua e aria”.

Ce lo racconta in questa maniera, Aldo Turchiaro, uno dei suoi amici più cari, #RosarioSprovieri, l’uomo calabrese -cosentino come lui- che per anni è stato Responsabile del Teatro dei Dioscuri al Quirinale.

È in Via del Conservatorio a Roma, proprio alle spalle del palazzo del Ministero della Giustizia di Via Arenula, dietro Piazza del Monte di Pietà, che vive oggi uno dei più grandi maestri della pittura italiana.

Oggi ha 93 anni, portati assai bene, e in passato è stato uno dei più grandi amici personali di Renato Guttuso. Insieme hanno attraversato le stagioni più difficili ma anche più esaltanti della storia dell’arte contemporanea, lasciando al mondo della cultura un patrimonio di opere, tele, ritratti, affreschi, schizzi e appunti di viaggio assolutamente inimmaginabile e di un valore storico di immensa portata.

Parliamo di Aldo Turchiaro.

Aldo Turchiaro è oggi considerato il “Il patriarca” della pittura italiana di questi ultimi anni. Un artista capace ancora di dipingere ed emozionare, creare, inventare, proporre, provocare, stimolare, sorridere, commuoversi, discutere e raccontare quasi un secolo di vita trascorsa. Artista poliedrico, completo, a 360 gradi, intellettuale, poeta, filosofo, fantasista e affascinante menestrello d’altri tempi, calabrese di origine, come tale testardo e cocciuto fino alla nausea, nato in un paesino appena sopra Cosenza. e diventato poi a Roma “L’inglese”, nomignolo che per la verità lo irritava molto, ma che gli avevano appioppato quasi per gioco i suoi amici artisti e pittori come lui proprio per via della sua eleganza sobria, quasi solenne, e soprattutto vista da loro come volutamente ostentata in ogni occasione che li vedeva protagonisti.

Aldo Turchiaro nasce a Celico il 6 aprile del 1929. Suo padre Salvatore aveva insieme alla mamma, Maria Soluri, un negozio di generi alimentari nel cuore della città vecchia di Cosenza, a due passi dalla Sede della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, al numero 162 di Corso Mazzini, dove Aldo e suo fratello Gaspare, diventato da grande poi un illustre medico psichiatra dell’Ospedale Civile di Cosenza, sono cresciuti e sono diventati adulti.

Quanti ricordi! Soprattutto, quanta nostalgia!

La cosa che più commuove è la maniera in cui Aldo Turchiaro oggi, a distanza di tantissimo tempo, riesce ancora a ricostruire nei dettagli il giorno della sua paura più grande:

Eravamo a Corso Telesio, io e Gaspare mio fratello, e ad un certo punto ci fermammo a guardare estasiasti due cani in amore. Sia per me che per Gaspare, era la prima volta che ci capitava di vedere una scena come quella. Era così emozionante guardarli che non ci accorgemmo che sulla nostra testa volavano gli arei angloamericani, e non ci accorgemmo che ognuno di quei velivoli stava scaricando sulla città di Cosenza il suo carico di bombe. Di quegli ordigni sentimmo solo il rumore assordante dello scoppio della bomba che era caduta proprio davanti a noi, e che ci avrebbe colpito in pieno se io e Gaspare non ci fossimo invece fermati a guardare i due cani in amore”.

Ma l’amore per gli animali, a casa Turchiaro, era diventata ormai una rigidissima regola di vita quotidiana.

“A casa – ricorda il Maestro- avevamo un cane, un gatto, una tartaruga, un colombo, e un agnellino, e per tutta la vita io e Gaspare abbiamo curato e assistito i nostri animali come se fossero stati per noi altri fratellini più piccoli. Ricordo ancora per terra, sul balcone, il cane sdraiato al centro e tra le gambe il gatto che dormiva con lui, e il colombo che gli beccava il muso mentre l’agnellino girava intorno a tutti noi altri. Era una casa felice proprio per questo, nonostante la miseria che si viveva in quegli anni a Corso Telesio, e nonostante la povertà reale delle nostre case e della nostra vita familiare”.

-Maestro ma è vero che lei ha ancora un grande sogno da realizzare nel suo cassetto personale?

“Più che un sogno è un desiderio, un desiderio naturalmente legato alla mia vita di artista e alle mie opere. Vorrei poter donare  alla mia città di Cosenza, e alla mia regione di origine che è la Calabria, il meglio della mia produzione. Ho messo da parte in tutti questi lunghi anni di mestiere le mie tele più belle e quelle che io giudico le più adatte a raccontare meglio la mia ansia per l’arte e la magia che il mondo dei colori ha rappresentato per me. Ora sento che è il momento giusto, e prima che sia troppo tardi vorrei poter offrire alla città che mi ha visto crescere il meglio del mio lavoro”.

-Maestro, è vero che farà di tutto per poter donare queste sue tele a Cosenza

“Sarà così. Farò di tutto per realizzare questo sogno, e spero che nessuno dall’altra parte mi deluda. Lo dico oggi a te, ma dovevo pur dirlo prima o poi a qualcuno. Ti ho fatto vedere la mia casa, è piena di quadri che hanno segnato la mia vita, sono quadri a cui sono legato in maniera quasi viscerale, un amore malato tu penserai, ma ogni artista vive con i suoi quadri questo rapporto profondo. Pensa che avrei potuto venderli tutti, e invece me li sono tenuti segretamente tra le braccia, stretti attorno alla mia vita che nel frattempo scorreva davanti e di corsa, perché ero geloso che altri potessero averli e potessero guardarli e godere della loro forza espressiva”.

-Maestro, qual è secondo lei il luogo migliore per metterli tutti insieme i suoi quadri, e permettere a chiunque di ammirarli per sempre? Insomma, a chi va indirizzata questa sua donazione?

“Alla Galleria Nazionale di Palazzo Arnone, perché considero questo grande edificio del Cinquecento il vero cuore storico della città di Cosenza. E poi perché la Galleria Nazionale ospita opere di pittori nati in Calabria, come Pietro Negroni, Marco Cardisco, Francesco Cozza e di artisti napoletani che hanno influenzato molto la nostra pittura locale. Per non parlare poi dei due grandi protagonisti del Seicento, Mattia Preti e Luca Giordano, il primo calabrese come me, il secondo napoletano. Come dirglielo? Mi piacerebbe molto che le mie opere restassero per sempre accanto a quelle di Umberto Boccioni Giorgio de Chirico, Emilio Greco, Antonietta Raphaël, Pietro Consagra, Mimmo Rotella, Bizhan Bassiri e che oggi la Galleria Nazionale di Cosenza ha il privilegio di possedere”.

-Con quale motivazione ufficiale regalerebbe questi suoi primi dieci capolavori?

È semplice. Per lasciare traccia viva delle mie opere, per le generazioni del domani. Voglio donare alla mia città un pezzo importante di quella che è stata la mia vita artistica”.

-Ha già scelto le tele da regalare alla sua città?

“Non vorrei peccare di presunzione, è l’unico difetto che non ho mai avuto, ma credo che le tele che ho scelto di donare alla mia terra siano davvero il meglio della mia produzione artistica. Ho già in mente i primi dieci quadri da regalare, e sono per me uno più bello dell’altro. Lo scriva in maniera chiara per favore, vorrei che questo mio gesto venisse considerato per quello che è, un regalo d’amore alla mia gente, e forse anche alla bellezza dei mille ricordi che mi legano ancora ai quartieri dove sono cresciuto, e dove ho giocato, e dove ho gioito e dove ho anche vissuto”.

-Aldo Turchiaro ha dipinto di tutto e di più. Ma so che ci sono tre tele molto particolari della sua collezione privata che intende regalare alla Galleria Nazionale?

“Certamente il mio Campanella. E poi il mio Telesio. Ma mi piacerebbe che alla Galleria Nazionale tornasse anche in vita il mio Gioacchino da Fiore, che oggi mi dicono sia conservato e custodito nel caveau di un importante Istituto Bancario di Rende, in attesa di trovare un luogo degno della sua bellezza”.

-Nessuno forse lo sa, ma un giorno capitò nel suo studio, a Via del Babbuino, il grande Mimmo Modugno. Cosa ricorda di quel giorno?

Una cosa bellissima. Lo vedo entrare e lo riconosco immediatamente. Pensai avesse sbagliato indirizzo, forse cercava qualcun altro, ma lui si presentò e mi chiese di poter acquistare un mio quadro. Era raggiante, felice come lo abbiamo sempre visto in televisione, pieno di verve e di ottimismo e ricordo che a un certo punto, guardando i miei delfini colorati e i miei uccelli con queste ali immense, si mise a canticchiare sulle note di “Volare”, “Nel blu dipinto di blu”, il suo indimenticabile ritornello “pitta che pitta che pitta, Aldo Turchiaro…Dio mio che emozione a ripensarci oggi”

-Maestro, se lei dovesse oggi dare di Aldo Turchiaro una definizione completa, come lo racconterebbe?

“Come un artista attratto dalla bellezza del creato, dalle meraviglie di madre natura, affascinato dagli alberi e dagli uccelli, dagli animali che vivono il pianeta, attratto dalla bellezza e dalla forza dei delfini, dalla creatività della tecnologia, non so come spiegartelo ma dentro i miei quadri c’è un pezzo del paradiso terrestre che Dio (?) ci ha lasciato immaginare. Vedi, ho lavorato per lungo tempo, lunghissimi anni, a dei quadri dove la natura, soprattutto alberi e animali sono il cuore e il centro della mia attenzione. Evidentemente ci sono mille motivi interni ed inestricabili per farmi amare queste cose, che qui a Roma dove io vivo non trovano più posto”.

-Dietro ogni sua tela, un messaggio di vita dunque?

“Leggila come vuoi. Di certo io so che amare la natura non è una evasione dai problemi dell’uomo; caso mai è affermare quanto sia importante e vitale conservarla, preservarla, difenderla, poiché in essa e da essa l’uomo vive e proviene. e, insieme alle sue creature tecnologiche ne è parte integrante. A che serve un linguaggio se non a trasmettere qualcosa? E quindi a trovare una sua collocazione attraverso i significati che via via assume? Non credi?”.

-Qual è stato nel corso della sua vita il colore preferito?

“Naturalmente il blu. A volte il blu elettrico, perché mi ricorda il cielo, il mare, gli spazi infiniti della terra. Anche se immagino le foreste dell’Amazzonia, che conosco benissimo, mi viene in mente il colore blu. Il blu mi ha accompagnato per quasi tutta la mia vita, tranne una fase iniziale, fino a quando non ho capito che per me il blu era come l’aria purificatrice che entrava e usciva dal mio studio”.

-Quanti dei tuoi quadri parlano della tua terra di origine?

“Davvero tantissimi. Io ho disegnato la Calabria in mille maniere diverse, usando i colori più strani e più accesi, dal rosso all’amaranto, dal verde al blu, ma perché volevo che l’immagine di questa mia regione fosse una immagine forte, coinvolgente, accattivante, capace di emozionare. E intorno a questa carta geografica della Calabria, perché questa è la Calabria di Aldo Turchiaro, ci ho inserito i pesci, i delfini, le cavallette, dentro i lupi della mia montagna, che era il Pollino, insomma un trionfo di vegetazione naturale di animali e di provocazioni le più varie. E intorno, ti ripeto, tanti delfini e tanti uccelli che danno alla fine il senso della libertà e della fierezza e della gioia di vivere”.

-Quale è il ricordo più forte che si porta ancora dietro, della sua infanzia a Cosenza?

“E’ il desiderio mai esaudito di avere un giocattolo tutto mio, ma molto particolare. Ogni qualvolta in Corso Mazzini, dove mio padre aveva il suo negozio di generi alimentari, mi capitava di passare davanti al negozio di giocattoli mi fermano per ore a guardare il meccano. Era la cosa che da ragazzo più desideravo avere. Non so perché il meccano, ma mi piaceva ogni forma di costruzione meccanica. Immaginavo di essere un ingegnere o un costruttore di labirinti, i più strani possibili strani da costruire, pezzo per pezzo. Come dirtelo, se potessi tornare bambino mi farei comprare ancora oggi il meccano, perché è un giocattolo che ancora suscita dentro di me mille fantasie e mille possibili invenzioni meccaniche”.

-Si racconta ancora che molti provarono a imitarla?

“Qualcuno ci ha provato, ma senza successo devo dire. Tutti sapevano che il blu era Aldo Turchiaro, ma il mio blue era un blu del tutto speciale. Quasi impossibile da copiare”.

-È vero che quando incominciarono a definirla un astrattista ci rimase male?

“Gli astrattisti e i realisti sono stati due incubi della mia vita, di cui mi sono liberato proprio attraverso il mondo degli animali con le ali, a quattro zampe, con le pinne e con gli artisti. Gli animali che dipingo mi hanno permesso di uscire dalle accademie dell’astrattismo e della figurazione, ben lontane dal valore che hanno avuto le avanguardie storiche. Non so se posso dirlo, vorrei evitare inutili polemiche, ma sono per me due correnti irretite dalla politica e dall’ideologismo filosovietico o filoamericano, parlo degli anni ’50-’60, dai meccanismi di mercato, altalenanti nel gusto, ma sempre uguali nelle dinamiche. Mi sono allontanato da esse spinto dal desiderio di rimanere fedele alle mie origini, e quindi anche a quella che è la mia vera cultura, non importata né imposta da nessuno. Sono figlio della Sila e dei suoi boschi secolari, non dimenticarlo mai, e sono per natura vicino di casa di ogni forma animale e vegetale che ho incontrato nella mia terra e nel corso della mia vita. È questa la vera grande molla della mia vita. In questo ho creduto sin dall’inizio e di questo voglio nutrirmi fino all’ultimo giorno della mia vita”.

-Qual è l’artista del suo tempo che lei ha amato di più, o che comunque ha seguito con maggiore attenzione?

“Senza dubbio, Fernand Léger. Fu uno dei capisaldi del futurismo. Lui riteneva che l’arte dovesse sostituire la poetica del soggetto con la nuova filosofia dell'oggetto. Diceva sempre che l’arte dovesse esaltare l'energia e il dinamismo dei tempi moderni. E per spiegare meglio questo suo concetto nel 1924 produsse un film d'avanguardia davvero bellissimo, “Ballet mécanique”. Io non sono mai stato completamente d’accordo con lui, ma l’ho seguito molto e ho amato molto alcune delle sue opere più belle”.

-So che quando vuole, lei sa anche essere ancora un giocherellone pieno di humor: ci regala un aneddoto della sua vita di artista?

“Ti racconto il primo che mi viene in mente. Negli anni ’50 quando avevo lo studio a via del Babuino 151, una mattina arrivò Mario Schifano, e venne per chiedermi una delle mie opere. Mi disse che era stato invitato al matrimonio di un suo grande amico e, che era sua intenzione donargli in regalo un’opera d’arte quale pensiero per le nozze. Mario capì che io forse non avevo capito il perché di quella sua richiesta e allora mi riversò tutto il disagio che aveva dentro, e la cosa per la verità mi colpì e mi commosse anche molto. Il grande Mario Schifano riteneva infatti poco comprensibili i suoi lavori di quel periodo e pensò che un mio quadro sarebbe stato molto più gradito del suo dagli sposi. Mi propose per questo, di fare un cambio di una sua tela con uno dei miei quadri”.

-Non posso non chiederle di Guttuso, era davvero suo grande amico?

“Il mio rapporto con Renato Guttuso è stato un rapporto molto forte, e anche molto duraturo. Da lui ho imparato moltissime cose, e la nostra amicizia è andata avanti per lunghissimi anni. Certo, eravamo molto diversi l’uno dall’altro. Io venivo dalla miseria di un paesino della Calabria che nessuno allora conosceva, Celico. Renato veniva da Bagheria, e dentro si era gelosamente portato dalla Sicilia il senso del potere, la dimensione della ricchezza, la consapevolezza di essere nato e cresciuto a due passi da Palermo, la certezza di un partito alle spalle che lo avrebbe difeso sempre e comunque, il vecchio Partito Comunista di cui renato è sempre stato alfiere e anche segreta macchina da guerra”.

-Maestro ma era anche lei comunista come Guttuso?

“Come lui, e forse anche molto più di lui. Ma erano diverse le nostre impostazioni intime, la nostra educazione familiare, la nostra crescita professionale, la nostra vita in generale. Io idealista, lui pragmatico, io poverissimo e lui già ricco e influente. Pensa che lui era già così famoso in Italia che quando io annuncia ai miei amici di Cosenza che sarei partito per Roma e avrei fatto di tutto per poter inseguire la mia passione di artista i compagni di partito ai affrettarono a preparare una lettera da mandare a Guttuso e annunciargli l’arrivo di un giovane “compagno” dalla Calabria. Naturalmente con il carattere che avevo non avrei mai potuto accettare un compromesso simile e non ritirai mai la lettera destinata a Guttuso”.

-Maestro ma lei morirà comunista?

“Ma non se ne parli neanche lontanamente. Il PCI in cui io sono cresciuto e sono stato allevato non esiste più. Ma non esistono più i vecchi partiti, non c’è più la dialettica di un tempo, oggi le barriere ideologiche di un tempo sono scomparse, inghiottite per sempre dalla confusione dei ruoli che domina le nostre vite, e questo mi ha convinto sempre di più che la politica vera non c’è più. No, non sono più comunista. Credo certamente nell’uomo e nella sua intelligenza, e nella sua buona fede, ma spesso agli uomini preferisco gli animali. Li capisco meglio e li amo con più facilità. Un animale è molto più sincero di un uomo. Se un animale non ti sopporta ti aggredisce e tu lo capisci subito, ma un uomo se ti odia può anche tradirti sorridendoti davanti. So che non dovrei dire queste cose, ma alla mia età ho finalmente riconquistato la libertà che avevo da ragazzo, da studente a Cosenza”.

-Qualche ricordo particolare?

“Uno in maniera assolutamente speciale. Io allora ero alle Medie, che stavano nel centro storico di Cosenza, e una mattina si presentò in classe un omone, era il nostro professore di ginnastica, se non ricordo male di chiama Ciacco, una sorta di stendardo umano tanto era alto e grosso, e provò a venderci delle medagliette del fascio. Io fui l’unico della classe a rifiutarmi di prenderla. Ma io mi sentivo già allora un vero antifascista. Tornato a casa raccontai tutto a mio padre e a mio fratello. Mio padre mi diede ragione fino in fondo, mio fratello Gaspare invece, che aveva un carattere completamente diverso dal mio, mi confessò di non aver trovato il coraggio che avevo avuto io. Gaspare comprò la medaglietta del fascio, la portò a casa e la fece sparire immediatamente”.

-Si ricorda il giorno in cui lasciò Cosenza per sempre?

“Era il 16 ottobre del 1951. Quel giorno mio padre mi accompagnò alla stazione, io presi il treno inghiottito dalla voglia e dal desiderio di arrivare a Roma e diventare un grande pittore”.

-Da allora è mai più tornato a casa sua?

“Quasi ogni estate, due settimane all’anno, finché i miei non sono morti. Ma era sempre più difficile tornare a casa, e soprattutto la Calabria si allontanava sempre di più dalla mia vita”.

-A 93 anni già fatti, se lei potesse ritornare indietro, cosa non rifarebbe?

“Rifarei esattamente tutto quello che ho fatto. Ma proprio tutto, dall’inizio fino alla fine”.

-Rimpianti, Maestro?

“Nessuno, davvero nessuno”.

La vita di Aldo Turchiaro è oggi profondamente segnata dalla sua lunga permanenza a Roma, dove l’artista di Celico incontra i grandi della pittura internazionale e dove, dopo tantissimi anni di rinvii e di attese sposa finalmente la donna della sua vita, “meu amor”. Màrcia Teòphilo, famosissima poetessa brasiliana candidata al Premio Nobel per la letteratura, una donna ancora bellissima che trasuda di Amazzonia e di ricordi popolari brasiliani, e che scrive di Aldo Turchiaro liriche e poemi senza tempo. Nel 2020, in pieno lockdown, con il Paese investito dal Covid, Aldo e Màrcia si sposano ufficialmente davanti al sindaco di Roma.

Ma cosa pensa la poetessa Màrcia Teòphilo di Aldo Turchiaro?

“Aldo Turchiaro è un Esòpo, che sosta in stazioni interplanetarie o scende lungo fiumi-fogna che muoiono uccisi dalla plastica o delle materie biodegradabili. Questo Esòpo di cui mi chiedi e che io conosco profondamente bene dialoga con il futuro, pensando al passato, unico modo di prevederlo, premunirlo. Le sue figure quasi statiche, metalliche, figure sacre o dissacranti, potrebbero sostare in templi antichi, pre-cristiani, dove l'uomo e la natura vivevano abbracciati in una sola scoria. In questo mondo Aldo “il pittore” parla un linguaggio che anche un fanciullo consapevole può capire”.

-In che senso Màrcia?

“Vedi, le voci e i colori del suoi quadri spiegano l’allontanamento dell'uomo dalla realtà germogliata dalla materia viva che procrea. Come quando prima di un terremoto, prima ancora che l'uomo si accorga della terra che comincia a muoversi in sordina e traditrice, gli abitanti della foresta, attenti, inquieti, si agitano allarmati e allarmanti. Come i fanciulli delle nuove generazioni che, anche senza capire le cause della tragedia umana, vagano disperati in un mondo costruito dai loro antenati e, imitando i delfini e le balene si suicidano”.

-Màrcia, qual’ è la sua opera più forte ?

“Credo sia “La Pietà”, che Turchiaro ha rappresentato con un delfino, simbolo assoluto di gioia preumana, dialogo dettato dall'intelligenza senza parola. Cercati questo quadro nei cataloghi ufficiali e vedrai quanta ragione ho. Questo delfino morente, che viene abbracciato da un uccello, svela un sentimento così forte che solo un uomo del Mediterraneo, del nostri giorni, può creare nella sua patetica consapevolezza”.

-Non vorrei che dietro questa analisi ci sia anche, però, l’amore immenso che Màrcia Teòphilo ha sempre dichiarato per lui?

“Vorrai scherzare? L’amore è una cosa personale, intima, che non riguarda il giudizio estetico. Guai se fosse così. Quando Aldo ha letto le mie prime poesie non mi hai detto che erano belle solo perché mi amava. Prima di amare me forse si era innamorato delle mie poesie. Così è stato per me con i suoi capolavori. Vogliamo parlare delle luci immaginarie o vere, delle luci interiori o profondamente spettacolari, delle materie e dell'armonia erotica di questi suoi quadri? Questa armonia viene da un lavoro ossessivo, appassionato con la materia pittorica. Credimi, l’affabulazione contemporanea di Turchiaro ha origini preistoriche”.

-Màrcia, di nuovo: in che senso lo dice?

“Quando nacquero i primi vegetali, i primi esseri, migliaia di verdi folletti dai lunghi capelli si mostrarono alla vita con mezzo corpo fuor d'acqua. E vicino ai fiumi apparvero enormi coccodrilli e cobra e tapiri. Sugli alberi intorno si posarono uccelli dalle piume variopinte e scimmie e tutti insieme facevano un'indicibile gazzarra.Poi fu generato l'uomo. Che restò legato ai quattro elementi vitali della natura: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. All'improvviso i giorni si fecero scuri, le notti nelle foreste divennero fredde, il cielo si spacca in nuvole polverose e illuminate stranamente, precipitando e uccidendo uomini, donne, bambini, tutto il verde, i laghi, i grandi fiumi e il mare”.

-Màrcia ma cosa c’entra Turchiaro con tutto questo?

“Semplice, gli animali di Turchiaro avevano già percepito il pericolo. Ti invito a vedere “La grande Agave”, “Cosa pensi Grillo?”, “II Delfino ferito a morte”, “II Buco viola”, “La Cetonia”, “L'Agave Acchiappanuvole”, “Horcynus Orca”, “Uccelli Innamorati”, e finalmente capirai la vera grandezza dei quadri di Turchiaro”. Ognuno di essi, dico sempre io, grida al mondo cose di questo tipo: “Io sono pietra viva in ogni angolo”, “Sono uccello e non conosco l'inverno”, “Sono aria, acqua e vengo dalle viscere della terra”, “Sono un uccello che vola perché e tutto”, o anche “Sono un frutto d'un albero”.

-Io invece direi il canto di una donna ancora follemente innamorata di lui?

“Proverò a spiegarmi meglio. Ti prego di leggere questa mia poesia che scrissi per lui il 23 maggio 1985, e poi decidi tu cosa scrivere e come farlo. Ma ogni volta che io guardo le tele di Turchiaro, si mescolano in me pensieri e serpenti. Nel Bosco ricoperto di tetti celesti, nella terra tra il muschio, vengono dal mare portate dal vento nuvole arenose, costruite dall'uomo, moltiplicate, rigurgitanti pensieri di morte. Saggio vagabondo, circondato dalla natura, mistico animate il delfino, senza casa, senza fiori, senza libri, senza scienza. Sono vivi i quadri di Turchiaro, traspirano luce armoniosa”.

Per la grande poetessa brasiliana, oggi diventata suo malgrado testimonial più autentica di una Amazzonia che sta morendo, seppellita dalle scorie della tecnologia e della modernità, per Màrcia Teòphilo Aldo Turchiaro è soprattutto un genio senza tempo, “Esòpo del 2000, poeta pittore che affronta con lirismo profetico i temi dell'Apocalisse tra il mondo animate e quello tecnologico”.

Come la vita di ogni artista che si rispetti, anche quella di Aldo è fatta di alti e bassi, di periodi di grandi ubriacature di successo e periodi neri, quando si faceva davvero la fame, ma alla fine ogni favola che si rispetti finisce meravigliosamente bene.

Aldo inizia a dipingere tra il 1942 e il 1943 con gli acquerelli e i colori ad olio, e agli inizi della sua carriera si ispira alle opere di Carlo Carrà e Giorgio De Chirico, ai metafisici ed è attratto dalle nature morte, dai ritratti e dagli autoritratti ma anche. dalla forza propulsiva e costruttiva degli oggetti industriali e tecnologici, che Turchiaro porta in primo piano insieme all’uomo contemporaneo come evoluzione della natura.

La compagna della sua vita, Màrcia Theòphilo, lo spiega molto meglio: “Aldo percepisce che il lato più evoluto dell'umano ha sempre imitato la natura. Per lui, le macchine funzionano come prolungamenti delle nostre braccia, gambe cervello e viscere, ma principalmente a immagine e somiglianza degli animali”.

Aldo Turchiaro dipinge dove e come può, girovagando per studi e abitazioni precarie e disagevoli, ma la sua vera fortuna iniziale è strettamente legata alla sua città di Cosenza, dove d’estate si trasferisce per stare in silenzio e lavorare.  In Calabria dipinge giorno e notte, produce tantissime opere che poi con la fine dell’estate porta a Roma. Nel 1953 rimane coinvolto direttamente, insieme al personale della Galleria Nazionale, all'allestimento della mostra di Pablo Picasso che resterà per sempre negli annali della Capitale e che segnerà per sempre il suo percorso artistico.

“Il maestro, da oltre settant’anni, viaggiando in suggestiva armonia con la sua anima, da uomo attento e sensibile, ha avvertito l’enorme forza e la seduzione della spiritualità, percependone immediatamente le sinergie più nascoste, intravvedendo gran parte delle interconnessioni e delle legature, “senza né corde né nodi”, che tengono insieme, sino a saldarle, “animalità e tecnologia”. Allora -ci spiega Rosario Sprovieri che oggi è diventato uno dei suoi amici più cari e la sua ombra più fedele- “scarnificare, modellare e plasmare la materia per Aldo, è diventato il frutto della “logica” per varcare i labirinti della mente umana. Aldo ogni giorno continua a servirsi di quel sottilissimo “filo” conduttore, eredità quasi impercettibile - della storia e della mitologia, e ricorre a quel filo inafferrabile, a quella minuscola fibra di seta impalpabile, che intrigò Arianna, Aracne e le Moire”.

Nel 1948, finita la guerra, visita la Quinta Quadriennale di Roma alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Valle Giulia dove si celebra la Rassegna Nazionale d'Arti Figurative, e dove riesce ad incontrare per la prima volta e dal vivo i più famosi astrattisti, realisti e neocubisti dell’epoca. Per lui è un vero colpo di fulmine, e dal 1949 in poi si avvicina alla scuola-pensiero di Renato Guttuso che la critica del momento aveva chiamato “espressioni del metafisico e del realismo espressionista”, e finalmente incomincia ad esporre le sue prime opere

Nessuno, prima di allora, avrebbe mai legato il nome di Aldo Turchiaro a quello di Renato Guttuso, ma a volte il caso combina le cose nella maniera più imprevedibile e più strana del mondo, e accade così che nel 1950 Aldo Turchiaro incontri a Roma per la prima volta Renato Guttuso, e tra di loro nasca immediatamente un forte e duraturo legame che non era solo artistico ma anche personale e amicale.

Lo si coglie fino in fondo dal modo come Renato Guttuso ricordava in pubblico il loro primo incontro.

Nei primi anni dopo la guerra, gli "ateliers" di Villa Massimo, già abitati dai pensionati della Accademia Germanica, vennero dati in affitto ad alcuni giovani artisti italiani, tra i quali Mazzacurati, Leoncillo, Greco ed io stesso. Rimpiangerò sempre quello studio, spazioso e pieno di luce. E c’erano due giovani pittori che frequentavano giornalmente lo studio. Uno era Raffaele Leomporri, ricco di un disordinato talento, che poi lascia l’Italia per l'America dove mori. L'altro era Aldo Turchiaro, un calabrese di Cosenza, gentile e malinconico”.

Un giorno Aldo Turchiaro piomba nel suo studio romano, in via di Villa Massimo, gli porta una serie di disegni appena abbozzati, e trova il coraggio di chiedergli un giudizio tecnico. Ma soprattutto, dopo i primi momenti di esitazione, gli manifesta il suo sogno segreto.

 “Mi faccia lavorare con lei Maestro. Mi faccia frequentare il suo studio, vorrei imparare da lei”.

“I disegni e i pochi dipinti con i quali mi si presentò – racconterà anni dopo Renato Guttuso- attrassero subito la mia attenzione. Appartenevano alla sfera allora detta, ed impropriamente, del "neo-realismo". Tuttavia, quelle sue prime prove avevano un accento di particolare schiettezza. Non erano rari, in quei tempi, i giovani che sinceramente lavoravano nella direzione figurativa, anche a causa delle esperienze vissute e delle loro scelte civili. Era raro invece trovare segni che uscissero dal coro. Le pitture "realiste" di Aldo mi parvero non di maniera, maldestre forse, ma schiette”.

E quando Alberto Pivi, direttore Responsabile della Edizione Italiana di “Maestri Contemporanei” chiede a Renato Guttuso, ormai lui già famosissimo di scrivere per la rivista un commento su Aldo Turchiaro, Guttuso si dichiara entusiasta e di Aldo Turchiaro scrive cose che lui, da siciliano scontroso e riottoso, non aveva mai dedicato a nessun altro.

La parentela con i futuristi e innegabile. Ma la macchina-macchina non è un modello, e solo generatrice di una morfologia. In Turchiaro -scrive di lui Renato Guttuso- è assente ogni aspetto romantico. La natura si ricompone attraverso scaglie di metallo, trucioli di ferro e acciaio. Tale composizione non può trasformarsi, come in Leger, in "equivalenti", nella costruzione di un oggetto nuovo, il quadro, che fu la grande scoperta dei cubisti, e alla quale Leger mai si sottrae, ma al contrario, alla definizione inequivoca, attraverso uno scrupolo tecnico impeccabile, di animali, foglie, alberi, spume del mare. La simbiosi natura-macchina acquista in lui una insospettata naturalezza. Anche le assimilazioni più elementari, per esempio l’elicottero-cavalletta, offrono allo spettatore prove convincenti. La lucente faccia di una foglia, la pinna di un pesce, l'avvolgimento di un filo d'erba, l'occhio di un serpente sono ricostituiti nell'officina di Turchiaro con esattezza ed amore. Qualche volta il risultato e sconvolgente”.

Per Aldo Turchiaro è una sorta di consacrazione ufficiale, che gli proviene per giunta da uno degli artisti più sofisticati ma anche più ricercati e più seguiti del momento.

A renderlo finalmente “popolare” ci pensa invece negli anni ‘70 una delle donne intellettuali di Calabria più temerarie e più intelligenti di allora, Lella Golfo, giornalista di “Calabria Oggi” a cui gli editori chiedono un’idea geniale per ridurre le perdite che il giornale in quegli anni accusava pesantemente.

“Erano gli anni Settanta - scrive Lella Golfo, oggi Presidente della Fondazione Marisa Bellisario nel suo libro autobiografico “Ad Alta Quota, storia di una donna libera” - e a Roma c’era un fermento culturale molto vivace. Io già collaboravo da tempo al settimanale Calabria Oggi. Per andare avanti era necessario aumentare le vendite. Così la notte continuavo a scervellarmi su come far decollare quell’avventura e ripetevo a me stessa che scrivere di cose interessanti non sarebbe bastato: bisognava inventarsi qualcosa. Così un giorno ebbi l’intuizione ingegnosa di fare un regalo a chi si fosse abbonato al settimanale. Sulla scelta dell’omaggio non ebbi alcun dubbio: avremmo regalato ai nostri lettori l’arte”.

E qui, l’incontro del tutto casuale con Aldo Turchiaro.

“Mi misi subito alla ricerca di artisti disposti a sposare il mio progetto – dice Lella Golfo- girovagando tra studi e scantinati di pittori e scultori spesso spiantati e sempre stravaganti, finché al mio appello risposero Marcello Avenali e Aldo Turchiaro, che si dissero pronti a far circolare le loro litografie tra i nostri abbonati e sostenitori. Avenali era un pittore già molto noto, per lui l’arte doveva essere fruita dalla collettività, lasciare i cavalletti e le belle case dei collezionisti per andare tra la gente, approdare nello spazio urbano, diventare così realmente viva. Forse per questo accettò la mia proposta, insieme ad Aldo Turchiaro, più giovane di lui e al quale lo legava la grande amicizia con Renato Guttuso. Anche lui metteva nei dipinti la sua lettura critica del rapporto tra natura, civiltà urbana e tecnica, a volte trasfigurando in forme meccanizzate gli animali, come le sue cavallette. La trovata di regalare ai nostri lettori le loro opere funzionò e in quella stagione il numero degli abbonati aumentò vertiginosamente”.

Quegli incontri, grazie soprattutto ad Aldo Turchiaro che era il più giovane e forse anche il più stravagante di tutti gli altri, segnarono per Lella Golfo il suo ingresso ufficiale nel circolo degli artisti: “Erano persone speciali, colte, sensibili ed esercitavano su di me un vero e proprio magnetismo. Così iniziai a frequentarli mettendo a disposizione la mia casa per serate indimenticabili in cui si parlava di tutto, dall’arte alla politica alla letteratura”.

Aldo Turchiaro incomincia anche a insegnare i segreti dei colori e della pittura a intere generazioni di appassionati dell’arte, e lo fa ai massimi livelli, a contenderselo sono infatti le Accademie di Belle Arti di Firenze, l’accademia di Brera a Milano e naturalmente quella di via di Ripetta a Roma.

Antonello Trombadori e Alvaro Marchini- racconta di lui Rosario Sprovieri- proposero più volte le opere dell'artista cosentino alla storica galleria “La Nuova Pesa” in via del Vantaggio a Roma, e dove poco prima di lui - avevano esposto pittori come Picasso e Leger, Glazunov, Guttuso, Attardi, Vespignani e Levi.

“E qui, Aldo Turchiaro presentò una prima selezione delle sue opere, relative al suo primo periodo, che erano di matrice esistenzialista. Ricordo che insieme ai suoi lavori furono esposti anche i disegni di Carlo Quattrucci grande amico del poeta Rafael Alberti, scomparso prematuramente negli anni Ottanta, alla giovane età di quarantasette anni”.

È un pezzo fondamentale questo della storia dell’arte italiana.

Carlo Quattrucci e Aldo Turchiaro erano stati, insieme a Marcello Confetti, Paolo Ganna, Piero Guccione, Gino Guida, Pino Reggiani e Pasquale Verusio i fondatori del gruppo d'Arte che si chiamò “Liberty Realty” e che era nato nei primi mesi del 1961.

Avevamo dato vita quel collettivo di artisti- dice Aldo Turchiaro- in aperto e dichiarato contrasto con quella che allora era la tradizionale nozione dell'astrattismo come unica espressione valida di un artista moderno. Sentivano la necessità di sfatare una volta per tutte quella concezione dell’arte legata soltanto ad una scuola preordina e a una serie di artisti quasi preconfezionati”.

La storia degli anni successivi ci dirà poi che questo “Gruppo” in cui Aldo Turchiaro aveva speso e investito tutte le sue energie migliori realizzò un’unica mostra, alla fine del 1961 presso la Galleria Stagni di Roma, ma che riscosse un successo di pubblico e di critica al di là di ogni aspettativa, davvero senza precedenti, di valenza nazionale, e questo permise che i grandi riflettori della cultura italiana si interessassero della nuova scuola che Turchiaro aveva provato a far nascere. Il grande critico d’arte Lionello venturi parlerà di un evento da non dimenticare.

 

francesco napoli

Vice presidente Nazionale Confapi - Security Manager Attuazione Protocollo di legalità

1 anno

Grazie maestro Aldo Turchiaro! Grazie pino nano

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