Le playlist di Spotify e la morte dei generi musicali
Amo le analogie quando ci sono da esplorare nuovi spazi. Non quando c’è da descrivere qualcosa di già esistente. Sono spesso fuorvianti. Ne ho parlato qua. C’è però un articolo su The New Yorker che racconta cosa sta succedendo ai tradizionali generi musicali nella grande trasformazione digitale della musica. E l’analogia con ciò che succede nelle organizzazioni aziendali è lampante. Vale, come spiegherò sotto, per le iniziative di innovazione e per le azioni di marketing. Ma anche per un certo modo di intendere l’organizzazione aziendale.
Spotify e la fine del genere musicale
Parto da un riassunto della tesi dell’articolo. Justin Bieber, il cantante pop emerso qualche tempo fa come star della musica per teenager, ha detto che non era contento che il suo nome fosse incluso tra gli artisti nominati per un Grammy Award in una specifica categoria di album.
Quando l’ultima serie di nomination ai Grammy è stata annunciata a novembre, Justin Bieber ha espresso disappunto per il modo in cui la sua musica era stata identificata dalla Recording Academy. “Sono molto meticoloso e intenzionale sulla mia musica”. Ha scritto su Instagram che il suo album “non è pop” e dovrebbe essere nominato per qualcos’altro.
Se un album appartenga a una categoria o a un’altra (Rock o Alternative? Folk o Americana o American Roots?) è discusso, spesso animatamente, dalle commissioni di nomination riunite dall’Academy. Questi confronti sono confidenziali e, naturalmente, fallibili.
È difficile immaginare una cerimonia dei Grammy che non si basi sul genere come principio organizzativo eppure il genere sembra sempre più irrilevante per il nostro modo di pensare, creare e consumare arte.
L’articolo infine ci dà una chiave di lettura per il futuro. È quasi impossibile immaginare la musica senza i generi, ma essi non saranno mai più gli stessi.
Il genere nemico dell’innovazione
Ci dice sempre l’autore che il genere è una cosa molto arbitraria e fluida. Ciò che rende qualcosa musica country può riguardare tanto le aspettative del pubblico quanto la progressione degli accordi, gli strumenti, l’indicazione del tempo o i testi.
Il genere è ancora una scorciatoia abbastanza utile e forse essenziale per il processo di marketing di un nuovo artista, specialmente su larga scala.
La studiosa Carolyn R. Miller è più specifica. Il genere è caratterizzato da qualche “azione retorica tipizzata” — una caratteristica ripetitiva che soddisfa facilmente le nostre aspettative o desideri.
Quell’azione retorica potrebbe essere musicale (“un vero blues di dodici battute, per esempio, è suonato su una chitarra e costruito intorno a una progressione di accordi 1–4–5”), ma è altrettanto probabile che sia radicato nell’estetica (i cantanti country indossano cappelli e stivali da cowboy) o nell’atteggiamento (i gruppi punk sono composti da anarchici miscredenti).
“Il genere è sempre un misto di struttura formale e contesto culturale”,dice Ehren Pflugfelder. “Questa è la cosa più frustrante del genere per coloro che vogliono che sia stabile nel tempo”.
E Spotify?
Le playlist di Spotify sono determinate in uno di questi tre modi.
- Le “playlist personalizzate” sono realizzate da un algoritmo che utilizza l’attività precedente di un ascoltatore e l’attività di altri con gusti simili.
- Le “playlist degli ascoltatori” sono compilate da individui che vogliono trasmettere il loro gusto.
- Le “playlist editoriali” sono curate dai dipendenti di Spotify. Alcune, come “Rap Caviar”, hanno di mezzo il genere, ma molte sono esperienziali (“Canzoni da cantare in macchina”, “Mood Booster”), e si basano su una presunta risposta dell’ascoltatore.
“Ovviamente, abbiamo accesso a un’enorme quantità di dati che ci dicono cosa ascoltano i nostri utenti e cosa vogliono ascoltare”, dice Kevin Weatherly di Spotify. “Ma è ancora musica, è ancora arte. Sono i nostri curatori umani che alla fine determinano in quali playlist rientrano le canzoni più recenti”.
Spotify non sarebbe così un “arbitro del gusto musicale”. Piuttosto una piattaforma che rende facile per gli utenti scoprire nuova musica. Le nuove playlist riguardano poco i generi e di più la soddisfazione dei bisogni individuali.
Pflugfelder dice che chi crede fortemente nel genere inflessibile o assoluto è già un po’ indietro con i tempi. “Chiunque si entusiasmi per la stretta aderenza a qualcosa chiamato genere si sta impegnando in qualcosa di fondamentalmente conservatore”.
Il marketing fondato sui generi
Veniamo alle analogie con il mondo del business e dell’organizzazione aziendale. Sono su vari livelli e provo a esplorarli.
Il primo ovviamente si riscontra nel mondo del marketing. La smania classificatrice di quasi tutti i settori porta a identificare e catalogare un’offerta in modo che rientri nella lettura tradizionale nostra e presumibilmente dei clienti.
Aspettiamo tutti di poter tornare a frequentare il Salone del Mobile di Milano. Sappiamo come ogni Padiglione fosse rigidamente collegato a una classificazione dei produttori secondo generi molto ben definiti. Anche troppo.
C’era una comodità logistica. Il compratore interessato al mobile classico non ha voglia di farsi chilometri su e giù negli infiniti spazi di Rho. Ma la comodità fisica sfocia facilmente in una pigrizia intellettuale. In una “bolla” di settore che non vuole elementi di disturbo. Salvo quando l’elemento di disturbo non sia il cliente.
Nel libro La via del marketing, il sempre bravo Marco Cordioli racconta un futuro già in corso.
Dovremmo smettere di centrare il nostro percorso di marketing su una sequenza ben definita di azioni che sembrano essere organizzate in un’inevitabile cascata esecutiva.
Potremmo accorgerci che i clienti non stanno leggendo la nostra offerta mappando pedissequamente la nostra lettura del settore. O dell’organizzazione.
Non hanno voglia di finire chiusi in un Padiglione predefinito del Salone del Mobile. Anche perché in digitale, cliccare qualche tasto non pesa quanto camminare per ore.
Easy to sell vs Easy to buy
Un cliente affronta la nostra offerta incidentalmente. Non è stato costruito per comprare il nostro prodotto o servizio. Se escludiamo qualche settore, il cliente ha un problema forte che vuole risolvere.
E a un certo punto il problema diventa così insopportabile da spingerlo a muoversi. E in quel momento attiva un comportamento che non ricade in una customer journey di cui sia consapevole.
Non va in ordine. Non segue il flusso che abbiamo preparato nel nostro ufficio marketing. Piuttosto compare a un certo punto della storia e vuole una risposta chiara al suo problema.
E la risposta non è che siamo organizzati con i Sales manager, che poi c’è il Marketing manager e il Customer Care e l’After Sales e chissà quanti altri interessanti “generi” organizzativi.
Per intenderci. I ruoli organizzativi, le strutture e i processi, tradizionali o agili che siano, ci servono. Un modello di Customer Journey ci può essere utile per organizzare i contenuti e le modalità giuste quando il cliente apparirà. Ma questo è “easy to sell”. E questa rappresentazione non descrive la percezione del cliente. La mappa non è il territorio.
Lasciamo spazio ai creatori
Quel che ci insegna la storia delle playlist di Spotify è che le etichette con cui organizziamo e spesso raccontiamo il nostro business possono, a volte, essere utili a noi per allinearci e dividerci i compiti in maniera efficiente.
Ma solo efficiente. Per l’efficacia serve come sempre lasciare che i clienti siano i creatori. E proprio sul terreno dell’abilitazione della capacità creatrice, e catalogante, di ogni singolo cliente, si giocherà il futuro di molte aziende di settori sottoposti alle ondate della digitalizzazione.
Lasciare spazio all’espressione del punto di vista individuale diventa essenziale. E poi supportare il percorso, al momento giusto, con garbo, può essere il mondo per creare la giusta customer relation. Termine (“etichetta”) che non a caso è fondamentale quando lo si intenda per quel che cerca il cliente. Ed è una pena quando diventa un tedioso software da imporre ai sales manager.