L’ITALIA E (E') LA SUA STORIA
L’Italia ha un grande bisogno di lanciarsi verso il futuro, ma è zavorrato da una coscienza politica frammentata, non avendo ancora digerito il proprio passato. Siamo un popolo postmoderno strano: se altrove si pensa ad un’identità globale, noi stiamo ancora attaccati ai nostri campanili, cattolici contro comunisti, settentrionali contro meridionali, ricchi contro poveri. Se con i Fondi Europei post-covid gli altri Paesi pensano a come liberarsi dall’energia fossile e a come innovare fabbriche e servizi, noi pensiamo invece solo a come valorizzare il passato, di cui siamo ovviamente ricchi col patrimonio monumentale posseduto. E’ un fatto di cultura: se il giovane nordeuropeo si sente normalmente proiettato al di fuori della famiglia, noi invece restiamo restare invischiati nelle nostre radici, che sono ovviamente “identità”, ma “passato”. Il motivo? A mio parere in Italia si studia male la storia, la si impara senza derivarne insegnamenti per il futuro. C’è quindi bisogno di storici capaci di far ricerca, ma anche abili nel creare “ponti concettuali” basati su di una valutazione sociologica del presente e del futuro. Se la “storicizzazione” richiede secoli, la riflessione storica richiede il coraggio di saper leggere con maggior efficacia i fatti moderni e giudicarli in maniera più oggettiva e definitiva. Non solo compito dei professori universitari, troppo amanti di archivi e biblioteche, ma anche dei tanti insegnanti di scuole, formati (e pagati) per far appassionare i nostri ragazzi al futuro partendo dalle proprie radici.
Il problema è evidente dal come e cosa viene insegnato nelle scuole dell’obbligo: la storia viene assorbita con malumore dai nostri giovani, tra date e fatti, come una materia noiosa ed avulsa dall’oggi. Tale disciplina, a leggere i libri di testo, pende più verso il “racconto” che verso la “storicizzazione”: si sa, per esempio, cosa sia stata l’antica Roma ma per nulla che ruolo abbia essa avuto per la cultura moderna. Essa è ancora troppo legata alla logica con cui fu introdotta, all’epoca del fascismo, come strumento di coscientizzazione delle masse al fine di enfatizzare l’entità nazionale. Si tratta della stessa operazione avvenuta con lo Stato sabaudo, con la messa al centro della storia risorgimentale da un punto di vista settentrionale, celando invece la realtà storica dell’annessione forzata e violenta del sud Italia. Idem a livello mondiale: i ragazzi imparano la storia dei vincitori e non dei vinti, per cui Cristoforo Colombo diventa l’eroe e non invece gli indios sterminati dalla cattolica Spagna. Altra grande assente è la storia locale: ci si ostina a propinare nozioni su realtà lontane millenni e a migliaia di chilometri senza stimolare i ragazzi su quel che è successo nel loro territorio, iniziando, per esempio dalla toponomastica della propria città e dalla visita dei monumenti locali. La tragedia è che spesso la formazione storica si ferma ai banchi di scuola con l’aggravante che la stessa storia moderna neanche viene portata a termine per ovvi motivi di timing programmatici: all’ultimo anno, in previsione degli esami di stato, ci si ferma a Giolitti, se va bene, solo qualche classe arriva al fascismo.
Manca nel nostro Paese la cosiddetta “verità storica”, ovvero l’elaborazione dei fatti moderni in maniera definitiva per una coscientizzazione sociale. Per un popolo è invece essenziale basarsi su questa verità in quanto essa diventa poi il presupposto per la propria coesione. I grandi popoli si basano su questa: tutti riconoscono un tipo di narrazione del proprio passato, anzi questa è necessaria per la propria identità, personale e sociale, e per un conseguente confronto con gli altri Paesi. Il nostro Paese, invece, a fronte di una ricerca storica poco presente, comunque ininfluente sull’educazione di massa, sviluppa una propria identità sociologicamente schizofrenica: non sono più i fatti a dare corpo alla realtà, bensì le opinioni, le interpretazioni, le ideologie. Ciò deriva anche da una polarizzazione politica del dopoguerra, ove al mondo cattolico si contrapponeva il mondo comunista: da una parte la chiesa, ma anche i proprietari terrieri ed i padroni d’industria, dall’altra i sindacati, i contadini, gli operai e gli emigrati. Si tratta di una polarizzazione che è stata molto indotta dalla politica internazionale: l’accordo di Jalta del 1945 tra Stalin, Roosevelt e Churchill ha infatti non solo diviso in due le sfere d’influenza, ma anche legittimato o delegittimato le forze politiche locali a seconda se si trovassero praticamente in uno o l’altro sistema politico deciso a livello delle superpotenze. In Italia ha governato la Democrazia Cristiana solo perché eravamo ad ovest, nella cattolica Polonia il Partito Comunista solo perché era ad est.
Diversamente che in altri Paesi, da noi la verità storica è stata negata con la necessità politica (e di consenso elettorale) di tenuta del Paese. Con la riunificazione della Germania del 1989, per esempio, si è imposta la verità storica (nel caso specifico: “ha vinto il capitalismo, ha perso il comunismo”) semplicemente evitando il riciclaggio del potere: la burocrazia della DDR, la Sta.Si. e gli organi del “partito unico” si sono trovati cioè disoccupati, mentre al potere oggi troviamo spesso le vittime di quel regime. Da noi no: gli impiegati pubblici (tutti con tessera fascista), gerarchi, squadroni della morte e repubblichini si sono ritrovati all’improvviso “assorbiti” dallo Stato repubblicano. Prima tutti fascisti, poi tutti democristiani: un trasformismo di vecchia data, “di Francia o di Spagna, purchè se magna”. E’ emblematico il confronto nei filmati dell’Istituto Luce di piazza Venezia prima con Mussolini durante la dichiarazione di guerra all’Inghilterra e poi con l’arrivo degli americani “liberatori” (in verità Roma era già libera prima): entrambi gli episodi con italiani entusiasti nella stessa piazza a distanza di qualche anno!
La verità storica ci indica invece che quel periodo fu per noi una vera guerra civile, repubblichini contro partigiani, collaborazionisti dei tedeschi contro italiani inermi, squadre fasciste contro movimenti operai, americani e mafiosi di Sicilia contro i fascisti, tanti regolamenti di conti da parte di partigiani verso fascisti isolati, accaparramento di beni da parte di tutti a scapito degli ebrei italiani deportati, il silenzio della sinistra sugli infoibati per motivi ideologici. Una vera e propria frammentazione sociale che si protrae fino ai nostri giorni, tutto per colpa di un’incapacità di saper storicizzare i fatti. Se la Germania ha avuto un suo processo di Norimberga, dopo del quale nessun tedesco si permette di definirsi nazista, è perché è stato storicizzato il passato: ciò ha indubbiamente aiutato quel popolo a focalizzarsi sul futuro. Non essendo ciò avvenuto da noi, il dibattito politico e le conformazioni sociali sono ancor oggi alle prese con i fantasmi del passato, invece di guardare al futuro: stiamo ancora lì a definirci comunisti o fascisti senza neanche sapere cosa ciò sia, o – per essere più precisi – sia stato.
In verità tale contrapposizione ideologica esisteva nella prima repubblica, ma era “sana”, cioè connotata da rispetto tra i leader e sicuro contenimento della dialettica nei limiti delle regole democratiche. Berlinguer, Almirante e Fanfani se le davano a parole di santa ragione con le regole democratiche, ma richiamavano le masse al rispetto sociale e alla pace contro la violenza: seppur ideologicamente spaccata, la nostra Nazione seppe ben contenere i fenomeni di violenza, ricordiamo gli stragisti fascisti, le Brigate Rosse ed i tanti fatti di sangue con servizi dello Stato deviati in odore di massoneria e zampino di potenze straniere. L’Italia ha cioè pagato a caro prezzo l’assenza di una storicizzazione, con morti e derive antidemocratiche, non solo nel dopoguerra, ma fino agli anni novanta. A mio parere il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è coinciso con la salita al potere di chi testimone della storia non solo non lo era stato, ma pure non aveva storicizzato il passato. Se nella prima repubblica gli attori erano spesso partigiani, repubblichini o diretti intermediari della chiesa, nella seconda erano i loro figli, cresciuti senza esperienza diretta dei fatti ed invece imbottiti di ideologie. Ed ecco quindi Berlusconi contro i giudici-comunisti, Bertinotti contro gli imperi capitalisti, papa Wojtyla contro la teologia della liberazione marxista: con gli occhi dell’analisi storica, dei veri commedianti, essendo gli anni novanta il tempo della morte definitiva di queste ideologie.
L’assenza di una verità storica sul passato, dicevo, ha alimentato fantasmi che hanno creato dei veri e propri mostri nei giovani d’oggi. Sullo sfondo di una diffusa abulia (del tipo “non capisco niente della storia, quindi mi astraggo pure sul presente)”, è preoccupante assistere all’identificazione col fascismo e col comunismo, quando questi non ci sono più. Quel che è rimasto è il capitalismo, che – anzi! – è realizzato nelle forme più estreme proprio dall’unico regime comunista rimasto: la Cina. C’è quindi una miopia storica nel non saper leggere le vere forze economico-politiche in gioco ed invece mettersi la casacca ideologica di qualcosa che non c’è più. E’ una pena per me vedere in alcune manifestazioni (per ora bloccate, grazie al covid!) piazze “contro”, fascisti contro comunisti, sardine contro leghisti, cattolici contro musulmani. L’effetto è quello di un clima di intolleranza dell’altro, del “diverso da me”, della sistematica non considerazione dell’altrui pensiero. Indicatore di ciò, visto che ora le piazze sono deserte per pandemia, è il modo con cui si dibatte in televisione o (molto peggio) sui social: semplicemente non si ascolta, si ripete la propria posizione, si interrompe sistematicamente l’altro, si strumentalizzano i fatti a favore delle proprie tesi ideologiche.
Il “capire la realtà” non è più frutto di ragionamento tra le persone, bensì un atteggiamento automatico dipendente dalla propria appartenenza. Il “capire la realtà” è stata troppo delegata al mondo politico, che ovviamente ha altri fini che non rappresentare con equilibrio la verità, è stata troppo affidata alla sociologia, che ovviamente non riesce non solo ad essere efficace, ma pure autonoma dal potere, è stata troppo data in mano ai giornalisti, più dediti alle opinioni e meno ai fatti. E lo storico? Lo troviamo troppo spesso rintanato nelle biblioteche e troppo timido a dire la sua in questo baillame comunicativo che è ormai l’Italia. Colpa del solo professore universitario, o non anche dei tanti professori di storia nelle scuole dell’obbligo, più alle prese col “programma ministeriale” e meno con la voglia di entusiasmare i ragazzi? Forse è meglio parlare meno degli assiri e delle piramidi egiziane e più della storia moderna italiana. Forse è meglio parlare meno del Risorgimento e più degli effetti perversi di questa riunificazione, che vede nord e sud ancora così distanti. Forse è meglio parlare meno del colonialismo passato e più degli effetti di questo con le immigrazioni di massa. La storia, cioè, non è “ieri”, è anche “oggi”.