MISURARE IL LAVORO (prima parte): IL TEMPO
“Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”: prendo in prestito questa frase di Salvatore Quasimodo per parlare di quanto siamo alla preistoria nel campo del lavoro. Nell’antichità si viveva di baratti (onerosi) e di schiavi (gratis), il collaboratore era di fatto inesistente. Sono invece le grandi opere dell’antichità, dall’antico Egitto all’impero romano, che fanno nel frattempo desumere nella storiografia umana i primi dipendenti: artigiani capaci al soldo dei potenti, comunque pagati. Sesterzi e sacchi di sale ai lavoratori romani (da cui il termine “salario” come mercede pattuita) e buon cibo con altre regalie agli artigiani del faraone. Per il resto è difficile desumere altre forme di lavoro di dipendenza al di fuori della schiavitù e di altri meccanismi di scambio tra proprietario terriero e bracciante, come la mezzadria del medioevo. E’ indubbio il fatto che i primi “patti di scambio” (lavoro contro salario) sorgano con la modernizzazione dell’800, tramite la creazione della fabbrica come primo modello produttivo organizzato.
Siamo però ancora lì dopo duecento anni: lo scambio compenso-prestazione, codificato con i tabellari dei Contratti Collettivi di Lavoro, riguarda ancor oggi solo la variabile tempo: stipendio = tot ore lavorate x importo orario. Logicamente al tutto si aggiungono le trattenute in busta paga, per cui è solo quel che resta che viene materialmente dato a chi lavora. Se si vuole è un metodo forfettario, che presuppone che per le ore contabilizzate dall’orologio marcatempo si sia effettivamente lavorato e che tutti i dipendenti lavorino allo stesso modo. Se, per accertare ciò, bastava l’osservazione del caporeparto in fabbrica, oggi l’effettivo controllo è ben più difficile. Se il lavoratore moderno addetto al videoterminale espleta le sue funzioni o gioca al solitario, se l’operatore telefonico gestisce comunicazioni e reclami e non telefonate con la fidanzata, se il trasfertista esplica le sue funzioni senza imboscarsi in altre attività, ciò non è dato saperlo. Il problema è che a non volerlo sapere è proprio il datore di lavoro, a cui basta fare ogni mese la moltiplicazione ore x tariffa = stipendio. Da ciò nascono propri e veri mostri, specie nell’area del “lavoro fisso”: l’importante è "stare al lavoro", a "fare cosa" non importa a nessuno. E’ in questo modo che si facilita e si premia l'inetto ed il mediocre, il che resta un costo ingiustificabile -ma tollerato- per l’azienda. Ciò è un costo in tutti i sensi, a cominciare dagli apparati addetti alle gestione presenze: intendo non solo i sistemi elettronici di rilevazione, ma pure il personale assunto a vagliare presenze, permessi, ferie e malattia con i connessi adempimenti contabili e fiscali. Tutto per registrare e remunerare non il lavoro svolto, ma l’effettiva presenza.
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Paradossalmente il lavoratore stacanovista o metodico o semplicemente single risulterà il “buon dipendente”, mentre quello flessibile, magari pendolare o con carichi familiari (minori ed anziani da gestire prima e dopo l’orologio marcatempo) risulterà un “cattivo dipendente” per via dell’irregolarità degli orari. Col paradosso che il primo otterrà più benefit (come la retribuzione straordinaria), il secondo più penalità per la minor disponibilità a restare in azienda. Tutto ciò per uno stupido dogma, che vuole la prestazione uguale per tutti e misurata solo sul tempo, come se questa possa essere costante per tutto il giorno: grande bugia che tutti sanno, ma che nessuno cita. La tragedia in tutto ciò è la modellizzazione del “sempre presente” e l’emarginazione del “poco presente”: i primi fedeli, anche se non produttivi, i secondi infedeli, se produttivi o fedeli conta poco.
Paradossalmente il covid e l’avvio di esperienze diffuse di smart-working ha legittimato la bontà di un lavoro a distanza, oggettivamente sganciato dalla variabile tempo. La speranza è che il mondo imprenditoriale italiano lo abbia capito che si lavora a ltrettanto bene senza gli orologi marcatempo!