SIGNORSI'
Il mondo del lavoro è pieno di signorsì, cioè di persone che obbediscono invece di capire, che controllano invece di lavorare, che non prendono decisioni quando invece il discernimento si impone, che vivono di apparenza più che di sostanza. Ciò deriva da secoli di schiavitù e di lavoro inteso come dolore da espiare per sopravvivere: dal libro della Genesi della Bibbia alla condanna al lavoro forzato dei prigionieri di guerra, dal potere latifondista di origini medievali fino ai campi di concentramento della seconda guerra mondiale, dall’emigrazione di massa all’estero fino alle esperienze di leva militare, l’obbedienza pare l’unico modo per sopravvivere. Ma c’è pure chi dice no, ma è un’eccezione.
Con tutte le varianti organizzative nel mondo, che pur esprimono pratiche cooperativistiche, l’Italia mostra chiaramente un unico modello: l’organizzazione capo-centrica. Non poteva che essere questa, vista la nostra storia - dagli antichi romani conquistatori ai feudatari oppressori fino al secolare nostro assoggettamento ai tanti poteri europei - , per cui il fascismo ha trovato terreno fertile nel nostro popolo, avezzo da sempre alla sudditanza. Mussolini ha quindi avuto gioco facile nello sviluppo del “mito del capo”: un dittatore decide e gli altri eseguono, chi si mette di traverso viene semplicemente fatto fuori. Questa cultura richiedeva collaboratori fedeli e non competenti: la seconda qualità era infatti vista come una minaccia al capo, che era l’unico a pensare. Una fedeltà non solo sostanziale (da dimostrare con i comportamenti), ma pure formale: l’avere la tessera del partito fascista era un requisito per entrare nel pubblico impiego. Lo “zelo dello schiavo” si è poi dimostrato al massimo livello nell’implementazione dell’etica fascista nelle scuole ed anche nella perfetta burocrazia a ricerca degli ebrei negli archivi per successiva consegna alle SS: efficienza massima perché ottenuta da teste non pensanti, convinte che l’obbedienza al capo sia un fatto etico, religioso, con cui lenire qualsivoglia senso di colpa.
E’ questo il meccanismo su cui si muove il rapporto “capo-sottoposto”, che è ancora il vecchio “padrone-schiavo”; se si è fedeli, si può essere anche compartecipi del potere. Ciò deriva dagli antichi romani, che nei territori di conquista cedevano il controllo a locali fedeli a Roma: ciò comportava un comando non solo agito (con spade e fruste) ma chiaramente delegato, quindi con trasferimento (di spade e fruste) ad altri assoggettati, schiavi contenti di diventare aguzzini dei loro stessi pari. La galea romana (un po’ rappresentata nel film Ben Hur) ben riproduce la delega del potere: il centurione romano in alto a comandare, il tamburellatore in subordine, schiavi fedeli a frustare e la massa dei prigionieri incatenati a remare. La “delega del potere” è cioè condizionata all’obiettivo del capo: esercizio di certe funzioni (far lavorare gli schiavi) a fronte di benefit (un tozzo di pane e l’esenzione dalla fatica). La delega del potere non è quindi democrazia, ma strumento di controllo: ben ce lo spiega Primo Levi nel libro “se questo è un uomo” allorquando spiegò i meccanismi di funzionamento dei lager nazisti. In questi le SS (tedeschi, quindi “ariani”) non si sporcavano mai le mani con i prigionieri, erano invece i nazisti non tedeschi (spesso polacchi) o i kapò (prigionieri disposti a torturare i pari per una fetta di pane in più) a fustigare, gasare, bruciare i poveri internati.
Roba del passato? Nell’osservare il mondo del lavoro di oggi mi viene da rispondere con le parole di Salvatore Quasimodo: "Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo". Anzi, la carenza di opportunità lavorative nel nostro Paese molto di più rafforza un servilismo come prerogativa di sussistenza, oltre che di virtù sociale. Se in un recente passato le dinamiche del mercato del lavoro concedevano opzioni, per cui si cambiava facilmente lavoro, ora l’accesso è percepito come una grazia o un miracolo, ancor più se trattasi del famoso posto fisso. Mi fa pena vedere sui social come i giovani, oltre a pubblicare foto sulla laurea con la corona d’alloro in testa, il matrimonio o la nascita del figlio, ci tengano a far sapere al mondo intero che hanno finalmente sottoscritto il contratto a tempo indeterminato come massimo e sofferto obiettivo della propria vita. Mi ricorda tanto l’accesso ad Auswitz degli ebrei, accolti dalla promessa “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) al suono dei violini. Il risveglio sarà tragico: “o esegui gli ordini e ti adatti alla gerarchia dei kapò ignoranti, o te ne vai”. Ora, se questo è una chiara regola d’ingaggio per i militari, e di ciò non si discute, quel che preoccupa è la trasmutazione di questo stesso modello anche sul versante civile, ancor più nei settori in cui il discernimento è oggetto stesso di lavoro, penso all’insegnamento, ai servizi di cura, all’ambito commerciale. Molte crisi d’azienda evidenziano questo grande problema: “la logica del capo non funziona, se poi il capo è un incompetente, la crisi è certa”.
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In verità noi lavoratori siamo abituati a pensare in maniera normale e forse è questo che ci frega: il mandato di tanti leader oggi può non essere quello dello sviluppo, ma quello della crisi. Una proprietà multinazionale può decidere di delocalizzare una produzione e quindi delega l’amministratore delegato a portare verso il fallimento l’impresa. Un’amministrazione comunale, alle soglie di un’elezione in cui perderà, può incaricare il dirigente di distruggere un servizio, per esempio spendendo tutto per accontentare i clienti esterni e facendo debito. Un datore di lavoro di una badante che si attiene ai compiti da contratto può agire mobbing verso la lavoratrice per indurla al licenziamento. Il problema italiano è semplicemente questo: i vertici non condividono con i lavoratori gli obiettivi veri, essi fanno leva sulla cultura classica del lavoro (“si è sempre fatto così”) e sull’obbedienza di schiavistica memoria, in Inghilterra li chiamano “yes-man”.
Si tratta di una tipologia vecchia di lavoratore, quella dell’antico servo della gleba, che potremmo tradurre in “signorsì”. Non più soldati da mandare al macello, ma novelli schiavi che evitano proprio di andarci al macello, opportunisti, egoisti, falsamente fedeli. Si tratta di persone che assecondano ogni ordine del capo, incapaci di critiche, obiezioni, ragionamenti, discernimenti: il sogno di ogni capo-dittatore, appunto! Si tratta dell’effetto dell’assonanza cognitiva, molto ben descritta in psicologia sociale, per permette uno sdoppiamento tra testa e realtà e quindi l’assenza di crisi interna o senso di colpa. Il signorsì vive di riflessi condizionati: a domanda risponde, ad ordine esegue, assai simile ad un robot che agisce per algoritmo. Si tratta di un meccanismo di adattamento al lavoro di tipo passivo, quasi un “andazzo egoistico”: siccome costoro evitano il contrasto col capo, lo accontentano. D’altra parte, come i kapò dei lager, sanno che l’obbedienza porta con sé benefit, che è ciò che a loro veramente interessa: che sia un tozzo di pane o un aumento di stipendio, loro poco importa. Sono fedelissimi, anzi godono nel denigrare i sottoposti; la delazione della “mela marcia” al capo è il massimo della libido di questo tipo di schiavi. Generalmente i signorsì sono adattivi: cambiato un capo, tendono a replicare il modello di sottomissione interessata al nuovo leader. Apparentemente sembra un costume di italico “quieto vivere”, invece tali imprinting rivelano personalità deboli, vuote, a bassa autostima, capaci di sopravvivere solo nella sottomissione, per nulla adulti e capaci di responsabilità e pensiero critico. Funzionali al potere, ma una tragedia vivente nel privato.
I signorsì sono tra noi, numerosi più che mai. Sono nel nostro stesso DNA, forgiato da millenni di schiavitù e di servilismo. Ce li ricorda l’Istituto Luce con i filmati di piazza Venezia a Roma: tutti acclamanti Mussolini con l’entrata in guerra dell’Italia, tutti ad accogliere festanti gli americani liberatori alcuni anni dopo. Due gruppi diversi o lo stesso popolo? Io tenderei per la seconda ipotesi.
ASSISTENTE SOCIALE ED ESPERTO E RESPONSABILE DEI PROCESSI FORMATIVI
1 annoNe discutevamo ieri in Call con il Gruppo di Lavoro del Croas