Non un'altra parola. Stupida.
(Sono solo quelle invernali...)

Non un'altra parola. Stupida.

Da quando "lavoro da casa", cioè da poco più di un mese, mi scopro ad apprezzare piccole cose -piccole piccole, innumerevoli e apparentemente di poco valore- che quando avevo la giornata scandita dall'orario e dallo spazio dell'ufficio, non vedevo.

Non avevo. Il tempo, la pazienza, l'occasione. Al di là del mio naso, riuscivo a concentrarmi solo sui rotolini di pancia che mi coprivano il profilo dei piedi a terra.

Guardavo spesso in basso. Raramente verso di me e verso l'altro mi intimidiva il confronto.

In questi giorni di sole, riesco a notare i nuovi germogli delle mie piantine, come la polvere che si posa sulle linee dei mobili scuri della camera da letto.

Mi fermo a guardarmi allo specchio. È pazzesco quanta poca attenzione io abbia mai prestato a questo atto. La mattina mi lavo il viso, mi spalmo di crema antirughe, come per dare una pacchetta sulla spalla alla mia autostima, e prima di sistemarmi i capelli nella solita coda sconfusionata, mi guardo bene bene negli occhi.

Sei tu, sono io. Cosa vogliamo fare oggi?

Accendo la radio, mi metto alla scrivania con la mia tazza di caffè e cerco di darmi da fare con parole chiave, tag, caratteri e articoli. Scrivo. Ed è una delle cose più naturali che mi riesce fare, oltre a canticchiare e sbottare (per pentirmene, il più delle volte, subito dopo).

Ho riscoperto anche quanto la radio sia un affetto, ormai è diventata la mia voce amica della giornata. Ci parlo a volte, come fa mia mamma con i personaggi della tv, aspettandosi che la stiano a sentire. La radio mi propone musica nuova, notizie e curiosità, spunti su cui riflettere o da approfondire. Googlo cose all'istante e scopro mondi. Oso dire che la radio, con la parola e la scrittura ci va a braccetto.

Grazie a lei sono costantemente aggiornata sull'andamento del virus (che ormai sembra sparito) e sulla guerra in Ucraina. Purtroppo.

Le iniziative che stanno nascendo per aiutare il popolo ucraino sono tantissime, partono dal basso, da noi e scaldano per poco il cuore e lo stoppino della speranza.

E da quando "lavoro da casa", cioè da poco più di un mese, sono libera anche di infilarmi le scarpe da ginnastica e uscire quando voglio, o meglio, quando le mie anche mi urlano di alzare le chiappe.

Giusto ieri ho fatto questa riflessione, proprio davanti alla scarpiera aperta, chinata a stringere i lacci: e se adesso atterrasse una bomba in giardino e dovessi scappare lontano (chissà dove), prendendo su quattro cose e via correndo? Cosa porterei con me? Quali scarpe sceglierei? Dove ho messo il passaporto?

Così. Come una sberla. Mi è arrivato questo pensiero, davanti ad una scelta di scarpe. Ho cercato -inutilmente- di immedesimarmi nelle donne ucraine di oggi, che fino a qualche settimana fa uscivano per fare la spesa o per andare a prendere i bambini a scuola, magari anche quelli dei vicini. Le stesse che qui fanno il lavoro che a noi non piace fare, prendersi cura dei nostri vecchi.

Ho cercato di immaginare le loro valigie, le loro poche cose che hanno dovuto scegliere. Quali scarpe. Comode o soltanto quelle che avevano addosso?

Mio nonno diceva che la guerra era, ed è sempre stata, la cosa più stupida al mondo. Lui se la ricordava da bambino e la associava all'aglio per cena e al bicchierino di latte per colazione, con il nero dei crostoli della pentola che lo macchiavano al posto del caffè.

La guerra, come la povertà, rende tutto uguale. Tutto rotto e sporco. Tutti rotti e sporchi.

Stupida. Non ha mai scelto un'altra parola mio nonno, una parola diversa per descriverla meglio. Sempre e solo stupida.

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