Parlami del tuo Tfr

Parlami del tuo Tfr

di Lidia Baratta


Il tesoro conteso in queste ultime battute della stesura della legge di bilancio si chiama Tfr, Trattamento di fine rapporto.

Parliamo di quella parte dello stipendio che i lavoratori dipendenti accantonano mese dopo mese e che viene poi liquidata quando smettono di lavorare – se vanno in pensione, si dimettono o vengono licenziati.

Quanti soldi sono? Il Tfr equivale al 7,41 per cento della Ral (Retribuzione annua lorda). Per i più precisi, si calcola così: si divide per 13,5 lo stipendio lordo annuo per il primo anno di lavoro, poi negli anni successivi si aggiunge l’1,5 per cento di rialzo fisso e il 75 per cento dell’inflazione.

Dove finiscono questi soldi? Quando viene assunto, il lavoratore ha sei mesi di tempo per scegliere se lasciare il Tfr nelle casse dell’azienda o se versarlo a un fondo di previdenza complementare.

Dopo i sei mesi, però, vale il «silenzio assenso». E se non comunichiamo nulla, il Tfr resta in automatico in azienda. Ma solo per le aziende più piccole il Tfr resta effettivamente nelle casse. Per quelle dai cinquanta dipendenti in su, le somme accantonate vanno all’Inps, che le usa anche per finanziare le pensioni.

Quando non puoi abolire la Fornero Ma ora il meccanismo dovrebbe essere modificato. Due emendamenti alla legge di bilancio presentati da Lega e Fratelli d’Italia prevedono la «riapertura» del semestre in cui i lavoratori possono scegliere dove mettere il Tfr. E in caso di silenzio assenso, la destinazione automatica non è più l’azienda, ma i fondi pensione «occupazionali» – previsti dai contratti nazionali o quelli di categoria – che hanno un beneficio maggiore rispetto ad altri fondi, perché contribuisce anche il datore di lavoro.

In passato, con il più generoso sistema pensionistico retributivo, abolito dalla riforma Fornero del 2012, i lavoratori italiani potevano contare su una pensione pubblica che garantiva anche oltre l’80 per cento dello stipendio. Secondo i calcoli del Mef, invece, entro il 2070 per i dipendenti si passerà dal 70 al 59 per cento, e per gli autonomi dal 55 al 47 per cento. Quindi le pensioni saranno più basse.

Non potendo «abolire la Fornero» (nonostante gli annunci) e alzare le pensioni, il governo ora ha messo gli occhi sul Tfr per rafforzare la previdenza complementare, integrare la pensione pubblica e dare un assegno che sia più possibile vicino all’ultimo stipendio.


Sei miliardi in meno Ovviamente all’Inps non sono contenti. Nel 2023, su 31,3 miliardi di Tfr totale, 7,8 miliardi sono andati alla previdenza integrativa, 17,3 miliardi sono rimasti nelle imprese più piccole e 6,1 miliardi sono finiti nella tesoreria dell’Inps. Dal 2007 al Fondo di Tesoreria dell’ente sono confluiti 98,5 miliardi.

L’ipotesi della riapertura del semestre di silenzio assenso per destinare automaticamente il Tfr ai fondi pensione rischia quindi di togliere risorse dalle casse dell’Inps, che già non naviga in buone acque.

Il presidente dell’Inps Gabriele Fava ha detto che «è un tema importante ed è ragionevole» discutere anche della possibilità di riaprire un fondo di previdenza complementare dell’Inps, che è esistito dal 2007 al 2020, dedicato ai lavoratori che non avevano un contratto di riferimento, ed è stato poi soppresso perché aveva pochi iscritti.

Ora la palla passa all’iter parlamentare. Inizialmente, gli emendamenti della maggioranza erano stati bocciati, poi sono stati ripescati e ora sono nell’elenco dei segnalati da Fratelli d’Italia, cioè nella lista delle modifiche prioritarie per il partito della premier.

Il tesoretto Il Tfr viene introdotto per la prima volta già nel 1927 come «indennità di anzianità». Nasce come un «salario differito», disponibile quando si smette di lavorare, per aiutare il lavoratore a superare eventuali difficoltà economiche legate al venir meno dello stipendio.

Come ha scritto Elsa Fornero, il Tfr è «da sempre oggetto del desiderio di tanti». Delle imprese che, fino al momento della liquidazione, ne beneficiano come finanziamento a costi più bassi di quelli richiesti dalle banche. E anche dell’Inps e dei fondi pensione, ovviamente.

Tutti possono aderire a un fondo pensione, godendo di una serie di vantaggi fiscali. E si può aderire a un fondo pensione anche senza destinare il Tfr, ma ovviamente bisogna avere una retribuzione sufficientemente alta da potersi permettere di risparmiare.

In Italia in realtà lo fanno in pochi. Oggi, circa il 37 per cento della forza di lavoro aderisce a una forma pensionistica complementare. Le somme sono in crescita, anche se ancora molto basse: alla fine del 2023, i fondi integrativi gestivano oltre 220 miliardi di euro, il 9 per cento in più rispetto al 2022.

Ma la percentuale è bassa soprattutto tra giovani e donne, anche a causa della precarietà del lavoro e degli stipendi bassi. E la percentuale di quelli che, pur aderendo, contribuiscono effettivamente, è di appena un quarto.

Guardare il dito e non la luna Aumentare il ricorso alla previdenza integrativa ovviamente sarebbe cosa buona e giusta. Ma, come ha scritto Fornero, in realtà non sembra esserci un gran bisogno di un nuovo semestre di silenzio-assenso. «Quello di cui vi è gran bisogno è una seria, credibile campagna di informazione o, se si preferisce, di educazione previdenziale che aumenti la consapevolezza dei lavoratori sulla necessità di risparmio per l’età anziana». (Sapete, ad esempio, quanto viene tassato il Tfr al momento della liquidazione a seconda che si scelga l’opzione azienda o fondo complementare?).

Senza inganni, però. Perché se non si aumentano gli stipendi, la coperta della pensione futura, anche includendo il Tfr, sarà sempre troppo corta.

 

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