PERSONE, ORGANIZZAZIONI E RISULTATI: IL CASO JUVENTUS
Nelle organizzazioni complesse i risultati di un gruppo dipendono da una serie di fattori che possono anche accelerare o rallentare il piano stabilito per raggiungerli.
Tra questi fattori incide sempre in maniera significativa la variabile “persone”. Una variabile spesso trascurata e ancora oggi soggetta agli umori delle proprietà sia nella fase di selezione che di reclutamento, oltre che di gestione quotidiana.
Per comprendere come le persone siano tanto determinanti possiamo prendere ad esempio un’azienda abbastanza nota come la Juventus, società sportiva per la quale non tifo e che opera in un settore, il calcio, che sfugge alle mie competenze contrariamente alla gran parte degli Italiani.
La società bianconera ha una lunga storia di successi, conseguiti quasi esclusivamente entro i confini nazionali, e negli ultimi anni è stata protagonista di un “filotto” unico e pressoché irripetibile, conquistando ben nove titoli italiani consecutivi. Tali successi non sono il frutto del caso o di chissà quali congiunzioni astrali favorevoli; sono la logica conseguenza di una lunga e oculata programmazione, indispensabile dopo le circostanze che hanno coinvolto la Vecchia Signora nelle vicende di “Calciopoli”.
Proprio in quella circostanza si palesò tutta l’abilità strategica di un gruppo industriale che seppe fare di un passaggio disastroso dal punto di vista sportivo un’occasione di rilancio che il resto delle società, salvo rarissime eccezioni, ha sempre mancato per tutta una serie di limiti strutturali e culturali prima ancora che finanziari.
Il management bianconero fu praticamente sdoppiato: a una parte fu delegata la gestione del progetto “Stadium”, avviato già nel 2002 quando la giunta torinese concesse alla Juventus lo sfruttamento dell'area del vecchio “Delle Alpi” per novantanove anni, e definito nel 2008 quando si decise la costruzione di un nuovo impianto; a un’altra parte fu delegata la gestione sportiva vera e propria con l’ingresso di Beppe Marotta prima in società come direttore generale e poi, nel breve volgere di pochi mesi, in consiglio d’amministrazione come amministratore delegato.
Marotta, allora 53enne, aveva già una lunga storia di dirigente sportivo iniziata a 19 anni, e ovunque avesse messo mano, dalla squadra della città natale, Varese, passando da Monza, Ravenna, Venezia, Bergamo e Genova, sponda Sampdoria, si era fatto apprezzare per aver portato ognuna di queste piazze oltre i limiti precedenti con tanto di record di punti, piazzamenti brillanti e valorizzazione del parco calciatori. L’evidente predisposizione ai successi, che alla Juventus sono di fatto diventati seriali, è proseguita una volta passato a quell’Inter che ha tolto lo scettro di imbattibilità alla società presieduta da Agnelli.
Ecco, Agnelli.
La storia bianconera è visceralmente identificata con questo cognome che nel tempo è diventato una sorta di casato, una famiglia che attraversa oltre un secolo di industria, di finanza e di mass-media sia a livello nazionale che internazionale.
La holding di famiglia, dopo la scomparsa dei fratelli Gianni e Umberto e un paio di interregni, ha deciso di affidare all’unico erede che portasse questo cognome così impegnativo la presidenza della Juve, da sempre contrassegnata da un approccio sabaudo, abbottonato, sagace ma non volgare, brillante ma mai sopra le righe, dove la maglia è sempre venuta prima del nome di un calciatore o di un altro, dove le parole come l’aspetto esteriore sono state sempre misurate.
Ad Agnelli è stato subito affiancato lo stesso Marotta e insieme ad altri dirigenti che si muovevano sotto l’ala protettrice di quest’ultimo, hanno prima rifondato staff tecnico e squadra per poi cominciare a mietere un raccolto che ha pochi eguali al mondo.
Al termine della stagione 2017-2018, quindi a settimo scudetto consecutivo conquistato, Marotta e l’allenatore Massimiliano Allegri capiscono però che il ciclo è arrivato a un bivio: la rosa mostra più di una crepa e manca quel quid in più che permetta ai bianconeri di conquistare il trofeo più ambito, quella Champions League conquistata solo due volte nonostante le numerose partecipazioni, e mancata nelle due finali disputate in tre anni con lo stesso tecnico in panchina.
Per Marotta e Allegri sarebbe meglio rifare l’impianto anche a costo di perdere qualche big, con investimenti mirati su giovani motivati, di sicuro avvenire, e un deciso “più” alla voce ricavi. Altri in società hanno una visione diversa, in particolare due: l’ex calciatore e dirigente di fiducia di Agnelli, Pavel Nedved, e l’allora direttore sportivo, Fabio Paratici, di fatto il vice di Marotta che lo aveva portato con sé dalla Sampdoria.
Il pressing dei due dirigenti sull’ambizioso presidente, stanco di vincere solo entro le mura domestiche con un gioco tacciato di eccessivo utilitarismo, è talmente forte da farlo innamorare dell’idea di far indossare a uno dei due migliori giocatori al mondo la maglia bianconera numero 7: Cristiano Ronaldo. Una scelta complicata soprattutto a livello finanziario, ma in grado sia di dare alla Juventus quell’appeal mediatico utile a garantire la Champions che il talento portoghese ha nel frattempo vinto quattro volte, sia di attirare nuove risorse che sostenessero il piano di sviluppo.
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Marotta capisce che sono cambiati gli equilibri e si allontana elegantemente un po’ alla volta come il buon senso impone in questi casi, lasciando ad Allegri il compito di traghettare la squadra ad un altro, scontatissimo titolo, e alla coppia Nedved-Paratici di portare Ronaldo allo Stadium.
Il colpo riesce con un’operazione finanziaria che appesantisce molto il bilancio, ma la Champions svanisce già ai quarti contro il non irresistibile Ajax e l’ottavo titolo di fila, il quinto per Allegri che diventa così l'unico tecnico nella storia del calcio italiano ad avere vinto cinque campionati consecutivi in panchina, non basta a lenire le ferite. Allora, Nedved e Paratici, intanto diventati rispettivamente vice presidente e direttore generale, tornano ancora più insistentemente alla scrivania di Agnelli per promuovere il fallimento della gestione Allegri, troppo legato a Marotta e ad un calcio speculativo, e imporre un cambio di rotta drastico. Sostengono la necessità di un allenatore che pratichi un gioco più europeo, che a loro parere la rosa che Marotta e Allegri davano già per bollita un anno prima era in grado di garantire, e mettono in panchina Maurizio Sarri.
Ecco, Sarri.
Se il coinvolgimento di Nedved, il cui stile fumantino difficilmente sarebbe andato giù a Gianni e Umberto, poteva essere naturale vista la militanza in bianconero e l’ingresso graduale nei quadri societari; se la scalata di Paratici, il cui stile provinciale difficilmente sarebbe andato giù allo storico presidente Boniperti, poteva essere comprensibile visto che deteneva i rapporti con gli scout e i procuratori che prima erano in mano a Marotta; ecco, Sarri è il famoso terzo indizio che fa la prova secondo Agatha Christie.
Lo stile dell’allenatore toscano, infatti, è quanto di più lontano potesse esserci dalla tradizione juventina per linguaggio, idee politiche, abbigliamento, understatement e qualità diplomatiche.
Sarri vincerà il nono e ultimo titolo della serie, ma nonostante la solita messe di gol segnati da Ronaldo, anche la sua Juventus subirà l’onta dell’eliminazione dalla Champions, stavolta addirittura agli ottavi e contro l’ancor meno irresistibile Lione. La delusione raggiunge così picchi di forte frustrazione che si riverberano nei modi poco sabaudi con cui la dirigenza juventina, Nedved in particolare, si scaglia dalla tribuna contro le varie circostanze avverse, decisioni arbitrali comprese.
Ma la prova del fallimento di immagine prima ancora che sportivo non balza agli occhi del triumvirato che, anzi, si cimenta in una sequenza di errori tecnici, gestionali, finanziari e istituzionali da far invidia ai dilettanti dei campi di periferia.
Il caso Suarez, il calciatore uruguaiano che la società bianconera prova a tesserare previo esame annacquato presso l’Università di Perugia per fargli avere lo status di comunitario utile a non superare i limiti che la Federazione impone per i giocatori extra-UE, con tutto lo strascico giudiziario in cui sono coinvolti i legali juventini; il caso Superlega, la competizione alternativa alla Champions League con cui dodici club calcistici europei con il club torinese in prima fila avevano provato a uscire da canoni, regole e premi targati UEFA, con le dimissioni di Agnelli da presidente dell’associazione dei club europei, il successivo dietrofront di quasi tutte le squadre coinvolte su pressione delle istituzioni politiche e sportive, oltre che degli stessi tifosi, e la stessa Juve ancora ferma sulle sue posizioni insieme a Real Madrid e Barcellona; il caso plusvalenze, l’inchiesta nata dalla Procura di Torino che indaga sulle anomalie dei flussi finanziari e contabili della Juventus nelle stagioni che vanno dal 2018 al 2021, con operazioni di scambio "connotate da valori fraudolentemente maggiorati" e le famigerate plusvalenze utilizzate in modo distorto come strumento "salva bilanci", bilanci che continuano a essere sanati da cospicui aumenti di capitale da parte della holding capogruppo.
Nel frattempo, sollevato anche Sarri dall’incarico e ingaggiato Pirlo alla sua prima esperienza in panchina, la squadra pluricampione ha perso lo scudetto finito sulla maglia dell’Inter dove Marotta ha pianificato l’ennesimo progetto di successo; ancora una volta è uscita dalla Champions agli ottavi, stavolta contro un ancor meno irresistibile Porto; si è qualificata alla massima competizione europea solo all’ultima giornata di campionato e grazie a una combinazione di risultati favorevoli; l’affare Ronaldo si è rivelato un flop visto che non è riuscito a portare la Champions a Torino, mettendosi di fatto nelle condizioni di essere svenduto al Manchester con una significativa, scherzi della sorte, minusvalenza.
La scelta di rinunciare a Paratici perché direttamente coinvolto nell’inchiesta, e di riportare Allegri al capezzale di una squadra in fase calante come dimostra il girone d’andata del campionato in corso, è prima di tutto un’ammissione di colpa e forse un tentativo di ripartire da zero anche considerando il carattere di un tecnico che detta le condizioni, a differenza dei due colleghi che lo avevano sostituito.
Cosa succederà lo diranno il campo e le scelte tecniche prossime venture; ma lo diranno soprattutto quelle che la proprietà vorrà innestare in un complesso che ha smarrito la sua identità, portando in posizioni apicali persone che non avevano e non hanno le competenze manageriali e temperamentali per guidare una macchina così complessa.
I risultati di oggi sono la diretta conseguenza delle decisioni prese in passato. Si può sostenere un errore per breve tempo, ma rimediare a più errori in fila fa emergere prima o poi tutte le inefficienze che ne conseguono.
Le organizzazioni vivono di persone e queste persone devono essere innanzitutto inserite nell’humus che distingue ogni ambiente dall’altro, che permette di coltivare e far crescere un dato progetto o un altro completamente diverso.
La responsabilità in capo a chi sceglie, a chi riveste il ruolo di leader, va quindi orientata secondo logiche analitico-relazionali e non emotivo-impulsive. Vale a tutti i livelli, nello sport come nelle aziende.
Organizzazione e gestione ufficio sicurezza presso Carbonovus Srl
2 anniHo letto con interesse questo articolo. Da juventina che frequentava lo stadio (ultima partita vista a Manchester alla finale di Champions League) mi sono allontanata, ma io preferisco dire dis-innamorata ai tempi di calciopoli. Torno a seguire ora da mamma con un bimbo che inaspettatamente si sta rivelando una brava punta e che ancora più inaspettatamente si è innamorato della Juventus. Io credo che ogni squadra abbia una duplice apparenza: quella che viene analizzata orientandosi ai meccanismi dirigenziali e quella che viene vissuta in base ai giocatori e alle loro storie. Portando in parallelo questi due punti di vista vediamo bene che ogni squadra di rilievo subisce critiche ad ogni passo falso, mentre le squadre "minori" vengono forse comprese e accettate nella loro posizione (per certi versi già stabilita, e che invece talvolta sorprende, come il Chievo di qualche anno fa). Ciò che a mio avviso manca è la credibilità di chi si muove in questi ambienti sommata alla mancanza di dirigenti per così dire "illuminati". Gli organi di stampa rappresentano la ciliegina sulla torta e vanno ad influenzare negativamente dinamiche che dovrebbero essere gestite con più riservatezza.
Founder/Chief Executive Director Community Based Organization #Galz Set Free Community Initiative,CEO Youth Projects Bbunga. Youth Chairperson Bbunga .
2 anniSure
Lean | Process | Production | Maintenance | Communication - Scrivo di lavoro, scrivo di me - Lean Green Belt
2 anniPunto questo articolo da diversi giorni. Da juventino condivido praticamente tutto avendo ormai da anni constatato mancanza di progettualità e condivisione, nelle alte sfere. Più dell'articolo mi è piaciuto il coraggio perché accostarsi alla "triade della morte" (sport, politica, religione) non è mai una passeggiata di salute e, puntualmente, fioccano commenti pretestuosi. Attendo quindi altri articoli interessanti su religione e politica caro Enzo...e magari sui vaccini, proprio per non farci mancare niente😃
Passionate of Air and Space Power
2 anniMolto interessante. Grazie e buon anno.
NATO Intelligence Surveillance and Reconnaissance Force Civilian Human Resources Administrator
2 anniBuona sera Enzo. Leadership, Management, Human Capital… e tantissimo altro. Ma hai scritto di “Juventus” ed affermato di non esserne tifoso: sono certo che le reazioni dei più siano attese ed utilizzate come “esperimento sociale”. 😉💙