Quello che insegna (veramente) l’università: alcune cose che avrei voluto sentirmi dire prima di iniziare.
Ho frequentato l’università. Anzi, in realtà ne ho frequentate due. La prima, con minore fortuna. Con la seconda, siamo andati meglio.
Mi iscrissi all’università perché, nella spannometrica visione del futuro che avevo a 20 anni, pensavo che, con una laurea in mano, avrei sicuramente trovato lavoro.
La mia prima esperienza è stata presso la Facoltà Design degli Interni al Politecnico di Milano.
Dunque, si comincia. Settembre 2006.
Prima lezione di modelli e allestimenti, tenuta dal Professor Paolo Padova.
Ci disse: “Guardate alla vostra sinistra e alla vostra destra. Pensatevi in gruppi da tre. Bene, mediamente in ciascun gruppo, due persone non si laureeranno mai qua”.
Pronti, via. Il Professor Padova esordisce con una carezza che manco in UFC.
Effettivamente la mole di lavoro si rivela importante e, complici gli impegni extrascolastici, gli esami si accavallano. L’entusiasmo iniziale non è sufficiente per gestire queste difficoltà. Piano piano perdo il filo.
Per farla breve, uno dei due su tre di cui parlava il Prof. Padova, sono diventato io.
Ciononostante, ero determinato a conseguire una laurea. Ricordiamo che, nel mio immaginario (condiviso da parte dei miei coetanei, se può essere un’attenuante) una volta laureato, avrei SICURAMENTE trovato lavoro.
Dunque, ricomincio.
Pensavo, che le aziende avessero sicuramente bisogno di qualcuno che parla le lingue straniere.
Dunque: facoltà di Mediazione Linguistica e Culturale, Università degli Studi di Milano.
Termino in tempo il percorso di studi. Quindi mi metto a cercare lavoro, speranzoso che i miei sforzi accademici si traducano una carriera lineare, in tempi ragionevoli.
Ho perso il conto dei CV inviati. So solo che è di poco superiore alle risposte mai pervenute.
Una certa delusione poteva accompagnare solo.
L’idea di percorso lineare che mi ero prefigurato piano piano andava sgretolandosi.
Mio malgrado, ho fatto esperienza di quanto si definisce inflazione accademica.
Cos’è l’inflazione accademica.
Quando i giovani nati tra i primi anni ’50 e la metà degli anni ’60 si affacciavano al mondo del lavoro, le aziende facevano praticamente a gara per assicurarsi le prestazioni dei neolaureati.
Quindi, nel momento in cui questi giovani sono diventati genitori, in ovvia buonafede, spesso hanno spronato i propri ragazzi a continuare gli studi dopo le scuole superiori.
Le università, nel frattempo, sono diventate economicamente più accessibili.
Queste sono due tra le ragioni che spiegano il grande aumento del numero degli iscritti all’università nel corso dei decenni:
Tuttavia, un maggior numero di laureati si traduce in quello che si definisce appunto come inflazione accademica.
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Il concetto è semplice: più aumentano i laureati e meno la laurea costituirà un requisito d’eccezione. Questo, di fatto, porta alla svalutazione del titolo di studio. Basti pensare come, per effettuare una preselezione dei potenziali candidati, molte aziende o istituzioni richiedano oggi la laurea anche laddove in passato non era necessaria.
Quindi, l’alternativa è studiare ancora di più?
Partiamo da un presupposto. Se ci si vuole distinguere sul mondo del lavoro, così come per crescere dal punto di vista personale, studiare non è un’alternativa bensì un requisito fondamentale. Sempre.
Sia uno presso un’università, un ente accreditato, un qualsiasi istituto che offra corsi o per i fatti propri.
Tuttavia, il percorso universitario ha a mio avviso un peso differente in quanto viene intrapreso tendenzialmente in una fascia di età decisiva dal punto di vista della crescita. Per molti rappresenta inoltre l’ultima opportunità di essere studenti di professione.
Al di là di ciò che si studia, che col senno di poi diventa per certi versi quasi marginale, ci sono parecchi aspetti che possono rivelarsi estremamente utili e che vengono invece frequentemente sottovalutati o totalmente ignorati dagli studenti.
Ne ho selezionati quattro.
1. La possibilità di confronto con culture diverse (e rendersi conto che la propria rappresenta una fetta minuscola della realtà)
L’università mette a contatto individui di diversa provenienza culturale.
Molto spesso rappresenta per i ragazzi il primo vero confronto con realtà che si distinguono in maniera evidente dal contesto locale in cui sono nati e cresciuti. Ricordo, ad esempio, come un mio compagno di corso, originario della provincia di Bari, rimase profondamente colpito da come i paesi nella zona nord di Milano siano letteralmente uno attaccato all’altro, cosa che per me invece risultava talmente naturale da non averci neanche mai fatto caso.
In questo senso si impara a riconoscere la propria cultura come un sistema limitato e si gode inoltre della spinta a guardare le cose, anche le più banali, con occhi diversi.
Il continuo confronto con punti di vista profondamente differenti dal proprio stimola il pensiero laterale e dunque la creatività. Inoltre, rendendoci più acuti verso il diverso, può essere di grande aiuto per sviluppare il senso di empatia.
2. Spinta all’apprendimento continuo (il cosiddetto Longlife learning).
I professori universitari hanno dedicato la propria carriera all’istruzione. Tuttavia, nonostante ne sappiano a palate, hanno la necessità di rimanere costantemente aggiornati in modo da fornire sempre argomenti e forme di insegnamento compatibili con i tempi che cambiano. Sono dunque (si spera) un esempio di studio continuo. Un approccio di questo tipo, come accennavo prima, rappresenta in generale una continua spinta ad aggiornarsi e a migliorarsi. Il che è fondamentale sia a livello lavorativo che personale.
3. Spinta all’elasticità mentale
Il piano di studi spesso include l’apprendimento di nozioni che apparentemente hanno poco a che vedere con lo scopo del corso di laurea.
Tuttavia, lo studio di argomenti disparati esercita (forzando, talvolta) l’elasticità mentale. Nel momento in cui siamo obbligati ad assorbire concetti tanto differenti tra loro, le nostre facoltà intellettuali sono in qualche modo spinte a “stirarsi” in direzioni che, altrimenti, non sarebbero chiamate a raggiungere.
Questa capacità può rivelarsi estremamente utile al fine di allenare il pensiero laterale, magari ricercando e sfruttando una contaminazione da parte di altri ambiti.
4. Chiedere a persone che sicuramente ne sanno più di te.
Durante l’università, il mio rapporto con i professori si è limitato a scrivere loro chiedendo il voto di una prova scritta negativa (la maggior parte delle volte i risultati insufficienti non venivano pubblicati) e, al termine del percorso di studi, a implorare un incontro utile a preparare la tesi.
Tuttavia, col senno di poi, mi sono reso conto di come, ad esempio, chiedere loro di fornirmi ulteriori fonti o anche soltanto (compatibilmente alla loro disponibilità) scambiare qualche opinione, avrebbe potuto essere di notevole aiuto.
Questo approccio sottintende la pratica di un’azione estremamente utile alla crescita individuale sia nel mondo del lavoro che in qualsiasi altra attività: riconosci nel tuo ambiente il più abile di tutti e impara tutto quello che ritieni opportuno imparare. Se necessario, sentiti pure libero di rompergli le scatole.
In conclusione
Spesso l’università viene vista come un percorso più o meno irto di ostacoli il cui unico fine è il conseguimento del famoso “pezzo di carta”.
Questa concezione descrive (in maniera ingenerosa) questa istituzione come un qualcosa di immobile e inerte, mentre in realtà rappresenta potenzialmente uno dei massimi esempi di dinamicità ed effervescenza sia dal punto di vista culturale che intellettuale.
Guardare al di là di ciò che essa insegna in termini strettamente accademici è necessario al fine di sviluppare strumenti funzionali a leggere il presente. In questo modo ci si rende recettivi rispetto al mondo, interpretandolo con spirito critico e non attraverso qualche visione altrui, magari parziale e anacronistica.
Questo aspetto, oltre ad essere fondamentale in ambito lavorativo, è altresì imprescindibile nell’ottica di crescita in quanto individui che partecipano al presente invece di subirlo passivamente.