"Ricostruzione a misura delle giovani famiglie". Intervista all'architetto Fusari
(Questa intervista è stata realizzata un mese prima della scadenza del mandato dell’arch. Fusari alla presidenza dell’Ordine degli architetti della provincia di Macerata ed è stata pubblicata dal settimanale Orizzonti della Marca sul n. 25 del 24 giugno 2017)
di Alessandro Feliziani
© Si è insediato alla guida dell’Ordine provinciale degli architetti di Macerata ad una settimana dal terremoto del 1997 e a meno di un anno dal sisma del 2016 si appresta a passare il testimone. Enzo Fusari, da vent’anni presidente dell’organo di categoria, ha vissuto in prima linea tutta la fase della precedente ricostruzione post terremoto ed è un profondo conoscitore del vasto territorio dell’entroterra, e di quello camerinese in particolare, di cui si dichiara innamorato, tanto che – lui maceratese – ha scelto di restare ad insegnare al liceo “Costanza Varano” di Camerino per avere un contatto continuo “con la gente e con questo ambiente che ti garantisce una buona qualità della vita”.
Lo abbiamo incontrato nella “casa” degli architetti di via Zincone a Macerata alle prese con le ultime incombenze amministrative necessarie a predisporre la fase di rinnovo degli organi dell’Ordine professionale. Una categoria, questa degli urbanisti, pianificatori e paesaggisti, che sicuramente avrà voce nella ricostruzione da avviare.
Architetto Fusari, per guardare bene al futuro occorre anche fare tesoro delle esperienze del passato. Del terremoto del 1997 cosa dobbiamo tener presente?
Il sisma di vent’anni fa nell’Appennino umbro-marchigiano è stato anche un’opportunità. Sono stati recuperati borghi e centri storici, rifatto reti fognarie e acquedotti. Senza il terremoto i tanti interventi, anche radicali, compiuti sul patrimonio edilizio non sarebbero stati fatti.
All’epoca però fu tutto molto diverso da oggi…
Le differenze tra i due terremoti sono enormi. Innanzitutto allora non c’erano le “zone rosse” e i luoghi non furono abbandonati. Le popolazioni sfollate e trasferite lontano dalle loro terre rappresentano gli aspetti più negativi del sisma del 2016.
Riusciranno a ritornare?
La vera ricostruzione si gioca tutta sul rientro della popolazione e sui tempi. Per questo è necessario che il governo regionale, più che quello statale, intervenga con un progetto complessivo di “rinascita” del territorio. Lo Stato – come ha già detto il commissario Errani - ricostruisce quello che c’era. A chi aveva una casa, consente di ricostruire quella casa. Per il privato questo può andar bene, ma per la comunità non basta. La regione deve farsi carico di una programmazione che vada al di là della semplice ricostruzione edilizia preesistente, altrimenti nel corso degli anni che occorreranno per completarla la gente fuggirà e poi rischiamo di avere tante “scatole vuote”.
Come immagina un intervento regionale utile alla ricostruzione materiale e sociale del territorio montano?
Bisogna pensare al territorio globalmente e a progettare un piano regolatore di tutta l’area. Occorre favorire un piano di sviluppo di vallata e predisporre piani di recupero comunali. Non, però, nella visione classica, in cui ognuno pensa per sé. Bisogna progettare come se si trattasse di un comune unico. La regione deve dare stimoli ai comuni, coordinarli e guidarli in un cammino difficile e delicato.
I singoli comuni dovrebbero rinunciare alla loro autonomia decisionale?
Non dico questo, ma debbono rendersi conto che da soli non potrebbero realizzare quello che invece è possibile ottenere unendo sforzi e soprattutto strategie. Bisogna camminare insieme verso una meta comune, che è quella di utilizzare la ricostruzione per invertire la fase di spopolamento e di decadenza che il territorio montano stava subendo già da anni prima del terremoto. Solo così anche il sisma del 2016 potrà trasformarsi nel tempo da tragedia in opportunità.
In concreto, regione e comuni su quali aspetti dovrebbero dialogare tra loro?
Occorre vincere i campanilismi e guardare l’intero comprensorio come un unico grande comune, studiandone la programmazione tenendo conto di orografia del territorio, infrastrutture, potenzialità. Inutile, ad esempio, fare un campo da calcio in ogni comune. Molto meglio poter avere un campo da calcio, uno da tennis, una palestra a servizio di più centri tra loro geograficamente e “tradizionalmente” vicini. Stesso discorso occorre fare soprattutto per le scuole. Quello scolastico, infatti, è un servizio essenziale per lo sviluppo senza il quale è impossibile pensare che sul territorio possano insediarsi nuove giovani famiglie. E senza la presenza dei giovani, il territorio non avrà futuro.
Per portare o tenere i giovani nell’entroterra occorre però anche il lavoro…
Certo, ed è essenziale. La ricostruzione va pensata, studiata e realizzata in funzione dei bisogni - attuali e futuri – dei giovani e delle giovani famiglie che si dovranno formare, radicandosi sul territorio. Oggi abbiamo un asse viario (la superstrada 77 Val di Chienti) che fino ad un anno fa non avevamo e occorre sfruttare tutte le potenzialità che esso rappresenta. Per questo le zone artigianali e produttive, ad esempio, potrebbero essere ripensate e riposizionate, dando priorità già nella prima fase di ricostruzione al recupero delle attività produttive presenti e ad incentivare nuovi insediamenti, soprattutto per favorire lo sviluppo di comparti economici in linea con le potenzialità del territorio; penso al terziario avanzato o al turismo.
Prima il lavoro e poi le case è stato il filo conduttore della ricostruzione post terremoto in Friuli. Va seguito quel modello?
Per quanto concerne il lavoro, sì. Per il resto, invece, i tempi sono molto cambiati e anche la nostra realtà è diversa da quella sotto molti aspetti, primo tra tutti quello della natura geologica del territorio. Da noi ricostruite tutto dov’era e com’era non è possibile. I centri storici sono certamente da recuperare per il loro valore anche storico e di tradizioni, ma vanno ricostruite anche parti di città nuove, ripensate con una dimensione e una possibilità di sviluppo, con servizi, impianti sportivi, scuole, che facciano da elementi aggregatori per nuovi abitanti. Occorre fare delle scelte, su cosa mantenere e recuperare. Ci sono tanti edifici degli anni ‘80 di modesta qualità edilizia che in alcuni casi è forse meglio demolirli per ricostruirli in aree più sicure.
L’aspetto essenziale è riportare la gente sul territorio, evitando che nell’attesa della ricostruzione scappi anche chi è rimasto. Lei, in questo, è ottimista?
Sì, lo sono per carattere, ma in questo caso a darmi ancora maggiore ottimismo sono i miei studenti. Ho ragazzi che sono sfollati con lo loro famiglie a Sirolo o a Porto Sant’Elpidio che tutti i giorni – con evidenti disagi – sono ritornati a scuola a Camerino, rinunciando alla “comodità” di poter frequentare il liceo ad Ancona o a Civitanova. Questo attaccamento alla loro scuola è sintomo di vero “amore” per il territorio. Un legame che per nessuna ragione al mondo ti fa rinunciare a quei panorami che solo dalle finestre dell’istituto “Costanza Varano” si possono ogni giorno ammirare e che ti ripagano di ogni sacrificio. ©