Altri Omeri

Altri Omeri

Ho passato moltissimo tempo della mia vita a oziare nelle librerie (purtroppo non più). A seconda della zona della città in cui mi trovavo, se giravo a piedi o ero in macchina, se avevo tanto tempo o meno, avevo delle mete predilette: Feltrinelli, in centro, rigorosamente a piedi; l'Aleph (che non esiste più) se volevo conoscere le ultime uscite nella saggistica, ma dove si poteva trovare praticamente tutto, dalla storia alla psicanalisi e chiacchierare con il coltissimo proprietario; Modusvivendi, pure in centro con un occhio alle altre culture e dove si poteva comprare anche una pashmina o una stola tibetana, e naturalmente Einaudi, posto serioso e austero in cui venivo chiamata 'professoressa' e trattata con estrema cortesia.

Non so quale di questi luoghi meravigliosi e profumati di carta sia stato il teatro del mio incontro con il Pacifico occidentale...

In principio fu Marshall Sahlins e Capitan Cook; poi venne Malinowsky e gli Argonauti nel Pacifico e infine Scoditti e Kitawa. I tre non hanno in comune soltanto l'oggetto di studio - le culture tradizionali polinesiane - ma anche uno strano (ma neanche tanto) riflesso condizionato, per cui cercano in quelle culture un po' di Grecia, per analogia o più spesso per contrasto. Così come noi cerchiamo nella nostra infanzia o nella nostra esperienza l'analogo di ciò che vogliamo comprendere ma che non sentiamo appartenerci del tutto.

Libri della mia scrivania, casa mia


Sahlins se la prende con Tucidide (ma poi scriverà un libro di scuse!); Malinowsky, quando studia la cerimonia polinesiana del 'Kula ring', in cui a bordo di canoe cerimoniali i polinesiani fanno un viaggio rituale che tocca diverse isole, si scambiano piccoli doni - collane di conchiglie e altri oggetti di scarso valore - e intessono relazioni di vario tipo, pensa subito agli Argonauti, al mito greco di Giasone alla ricerca del Vello d'oro (quello in cui si fa aiutare da Medea, per poi scaricarla senza remore).

E veniamo all'ultimo, in ordine cronologico di passione.

Negli anni ‘70 un antropologo ed etnologo italiano, Giancarlo Scoditti, a Cambridge, si appassiona ad alcuni manufatti usati dagli abitanti delle isole Trobriands, nel Pacifico occidentale. Tavole policrome con strani disegni pieni di serpenti, esseri mostruosi, volute e gorghi.

Decide di fare una ricerca sul campo, a Kitawa, un’isola in cui si sono mantenute le condizioni di vita ‘tradizionali’ della cultura Nowau e dove si costruiscono le bellissime canoe cerimoniali per il ‘Kula ring’.

Canoe splashboard, Trobriand Islands, Honolulu Museum of Art


Qui, a Kitawa, Scoditti pensa subito a Omero quando conosce il poeta Ipaiya, quasi cieco. Anche a Kitawa, come in Grecia, gli abitanti pensano che il poeta debba essere cieco: debba chiudere “gli occhi sul mondo esterno per spalancarli sulla mente”. Per il classicista è un bel bagno di realtà immaginare in modo anti-classico la Grecia arcaica: non come la Grecia patinata dei quadri neo-classici in cui panneggi sottili compongono le pieghe degli abiti sontuosi degli aedi, ma come le piccole comunità trobriandesi delle fotografie degli etnologi, a volte in bianco e nero.

Scoditti ha il privilegio di osservare e documentare il modo in cui il poeta orale compone.

Nel silenzio della sua capanna, a Kitawa, il poeta sente le parole che gli suonano dentro, le ascolta e le fissa nella memoria, come noi facciamo sulla carta; e qui restano finché Ipaiya non ritiene che la poesia è pronta per essere ascoltata dal villaggio. Composta la poesia sonora, la dona a un cantore o a una cantatrice del suo villaggio che la interpreterà con la sua voce, addestrata per anni.

Il poeta, a Kitawa, è il responsabile di un’unica versione autentica e corretta del testo - orale - della poesia. Questa poesia verrà poi memorizzata frase per frase attraverso prove, del cantante o di un coro. A questa fase seguirà l’esecuzione. 

L'aedo omerico, nell'immaginazione neoclassica (Demodoco alla corte dei Feaci: Odisseo piange perché si parla di lui!)


Ipayia è un Omero polinesiano?

Molto più noto di Ipayia è Avdo, un Omero balcanico.

La sua storia è per certi versi simile. Comincia anch'essa con un giovane ricercatore che lascia la sua comoda scrivania - questo ne aveva tre! A Berkeley, ad Harvard e alla Sorbona! - per studiare la poesia orale in quella che allora si chiamava Jugoslavia e in cui - specie nell'entroterra - era diffusissimo l'analfabetismo e la cultura dei guslar, i cantori.

Questo giovane si chiama Milman Parry, figlio di un farmacista di Oakland, California. A casa sua nessuno ha mai letto un rigo di greco! Ma lui si appassiona a questa lingua difficilissima, alla lingua omerica specialmente ed è tormentato da un'idea: Omero non sapeva leggere né scrivere e quindi, anche se non fosse stato cieco, non avrebbe potuto scriverle né leggerle, l'Iliade e l'Odissea!

Ma esisteva un luogo in cui la poesia orale era ancora viva, come abbiamo detto, cioè i Balcani (non so se Parry abbi amai pensato alla Polinesia, forse no). Parry vi si reca due volte e con l’aiuto di un interprete va di villaggio in villaggio, si informa su chi sia il miglior guslar - si chiamano così perché cantano accompagnandosi con un gusle, uno strumento a corda fatto di legno e pelle di pecora - nelle taverne locali e sta a sentire ore e ore di canti...

Parry si dota di un sistema di giradischi appositamente costruito e registra per ore mentre il guslar di turno ripercorre il suo repertorio di racconti sugli eroi balcanici e le loro peripezie.

Alcuni sono straordinariamente simili all’Odissea! C'è un eroe che quando torna in patria dopo una lunga prigionia viene riconosciuto, come Odisseo dal cane Argo, ma da un cavallo!

Guslar, 1930


A Parry, e al suo allievo e collaboratore Albert Lord, sembra di essere arrivato alla fonte dell’epica! In quelle canzoni, come scrisse in seguito Lord, si sentiva “l’Odissea, o canzoni antiche come questa, ancora vive sulle labbra degli uomini, sempre nuove, eppure sempre le stesse”.

Parry scopre che non solo i guslar non avevano alcun testo scritto, alcun libro da cui memorizzare i loro canti, ma anche che, quando chiedeva al guslar di eseguire lo stesso canto in giorni consecutivi, le trascrizioni potevano essere notevolmente diverse, anche se il guslar era convinto di aver ripetuto lo stesso canto! 

Parry allora tenta un esperimento: chiede al guslar che riteneva più bravo - Avdo Mededovic - di ripetere un canto eseguito da un guslar di un altro villaggio: Avdo non aveva mai sentito prima quel canto, Parry gli fa ascoltare la registrazione e il guslar riesce a ripeterlo...

Ma non tale e quale! In effetti, Avdo lo rende molto più lungo e più bello, vi aggiunge sentimenti e profondità, lo arricchisce e lo migliora.  

Ci troviamo dunque davanti a due, anzi tre possibilità:

Omero-Ipayia: un singolo poeta, un individuo che concepisce una poesia anche molto lunga, la definisce parola per parola, con la sola memoria 'visiva', vedendo i suoni delle parole; e poi regala la poesia perfettamente compiuta al cantante;

Omero-guslar anonimo: un cantore che racconta storie sulla guerra di Troia improvvisando, cantando ogni volta in modo diverso gli episodi ben noti del cavallo di Troia e della lite fra Achille e Agamennone;

Omero-Avdo: un guslar più bravo degli altri, che ha ascoltato quelle vecchie storie e le ha trasformate in canti di eccezionale profondità e bellezza, da cui derivano i poemi che oggi leggiamo.

Ma allora da dove viene il testo? Da dove viene il libro, scritto, che noi abbiamo fra le mani, ma anche nel V secolo a.C. avevano fra le mani? Seppure in forma diversa, di rotolo di papiro. Come hanno fatto a metterlo per iscritto? E chi lo ha fatto?

L'incipit dell'Iliade


(continua)



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