La crisi della materia
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La crisi della materia

Abraham Maslow indica la realizzazione di sé in cima alla sua piramide dei bisogni. Pur riconoscendo delle notevoli differenze a livello individuale (c’è chi mette davanti a tutto il desiderio di costruirsi una famiglia e chi passa la sua intera vita cercando di raggiungere la perfezione artistica), il benessere psichico è sempre una questione di coincidenze. In questo caso, evidenziato dal punto d’incontro fra i valori che rappresentano ciascuno di noi nei diversi ruoli che abbiamo.

Se da un lato, per il marketing è una grande fortuna che il processo che porta alla autorealizzazione tenda all'infinito confermando, pertanto, l’impossibilità di poter essere raggiunto completamente (chi è in equilibrio con se stesso non ha bisogno di comprare tante cose), dall'altro è costretto a fare i conti con i profondi cambiamenti che hanno interessato le relazioni umane.

Mi riferisco, in particolar modo, alla costante transizione dall'analogico al virtuale e, forse in maniera ancora più significativa, dalla dimensione qualitativa a quella quantitativa della vita.

Riconoscendo la difficoltà sociologica di osservare “oggettivamente” un sistema standoci dentro, è impossibile non riconoscere come su più livelli sia avvenuta una specie di riformattazione del cosiddetto “organismo sociale”. Un reset che ci sta portando (forse, addirittura oltre) ai confini dell’antimateria.

Come siamo arrivati fin qui?

In origine il denaro era un mezzo di scambio, ovvero la sequenza (banale) che ha surclassato il baratto. Merce-Denaro-Merce. Semplice, leggero, immediato.

Poi il denaro si è dematerializzato, prima “contenuto” nelle plastiche delle carte di credito e, successivamente, glorificando esclusivamente i bit. I soldi sono così spariti dalla nostra vista, dando una nuova prospettiva al concetto di autorealizzazione: da mezzo a fine. Di più, sono diventati il fine ultimo e supremo. Una boccata d'ossigeno per il marketing.

Ma ancora non riusciamo a spiegare la transizione che, sia detto, non è più solo un atto da considerare in potenza. Esiste, ci circonda, la vediamo (con tutto l’immaginifico che spalanca questa parola).

La realtà post-industriale non ci ha liberato dalla fame, dalle guerre, dalle diseguaglianze (da dire con estrema tristezza, forse le uniche cose che sopravviveranno del “vecchio mondo”), ma ha creato un territorio illimitato, interminabile, inesauribile. Internet.

Non poteva durare. Nel momento in cui le attività economiche si spostano sempre più online, i manovratori del capitale (Zuckerberg, Bezos, Musk & Co.) si accorgono che alla rete manca una cosa. Per renderla compatibile con il concetto di proprietà che tiene in piedi ogni cosa nell'universo capitalistico, servono scarsità e autenticità. Signore e signori benvenuti nel Metaverso!

Gli NFT sono l’ideale per offrire la possibilità (al momento non è dato a sapere quanto effimera) di tenere insieme queste due dimensioni.

Distanti anni luce dal “senso del possesso che fu pre-alessandrino”, oggi facciamo i conti con una cultura estetizzante che non distingue più ciò che ci appartiene fra “roba fisica” e “roba virtuale”.

Sarebbe del tutto illusorio pensare di fermare la macchina, ormai la sua velocità ha distanziato la memoria dei valori che solo chi ha una “certa età” ricorda, prima che gli eventi ci facessero piombare nel post-moderno.

Ma possiamo ancora collegare i “perché”. Chiederci, ad esempio, se la felicità può essere generata esclusivamente dai click, se la superficie delle cose (virtuali e non) è tutto ciò che desideriamo, se la comunità non debba tornare ad essere anche respiro, sudore, sangue e non solo follower.

Sarà quello il momento di “dire no, come il buon vecchio impiegato Bartleby ci ha insegnato. E a fare la rivoluzione"? (Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street, Herman Melville, 1853)

Io credo di sì, perché “nessuno può essere pienamente felice finché gli altri continuano a essere infelici. Non può esistere nessuna isola di gioia in mezzo a un oceano di crimini e di orrore” (La danza immobile, Manuel Scorza, 1983).

Se con la caduta del Muro di Berlino sono crollati gli atomi del Secolo Breve, lasciando campo libero, dapprima all'illusione, poi alla nostalgia e, infine, alla rabbia, adesso abbiamo un disperato bisogno di ritornare a vedere la luce della condivisione e della collaborazione. Una vita di ginocchia sbucciate, di sale che brucia le ferite, di lezioni che solo il vento fra i capelli ci può dare.

Una vita sicuramente con più tempi vuoti riempiti di noia, ma è quella per cui siamo nati.

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