Le domande di sempre
Una delle scoperte fondamentali delle neuroscienze è che il nostro cervello, in maniera automatica, nonostante decine di migliaia di anni di evoluzione, si pone costantemente le domande dei nostri antenati nella savana:
Sta succedendo niente di nuovo? C’è una minaccia per me? C’è un’opportunità (cibo, sesso, piacere, riparo, onore)? Sta andando tutto bene? C’è qualcosa a cui dovrei fare attenzione?
Questa parte del nostro cervello “filtra” tutti gli stimoli non necessari. Pensiamo a quanti filtri poniamo alla comunicazione che ci arriva costantemente, passata da 500 messaggi al giorno nell’era della televisione, ai 5000 degli attuali anni digital, senza contare che si sono aggiunti un numero enorme di messaggi attraverso i canali social, di amici, conoscenti, sconosciuti. Potete verificare facendo un esperimento, come lo studioso di marketing Ron Marshall, che si è messo a contare i messaggi pubblicitari ricevuti utilizzando normalmente il suo telefono a partire dal risveglio, elencando 487 messaggi prima ancora di terminare il caffè. Ho fatto lo stesso esperimento qualche mese fa, includendo anche post di ogni genere, mail, commenti, messaggi whatsapp, notifiche, arrivando a superare i 1000 messaggi di esposizione all’ora di cui il 10% richiedevano una mia reazione scritta; nessuno di noi ha un numero uguale, ovviamente, ma qualunque sia il numero esatto di banner, video, stories, immagini, post, notifiche e stimoli comunicativi vari che arrivano da amici, conoscenti, estranei, aziende, politici, una cosa rimane chiara: la quantità è enorme. Quindi non dovrebbe sorprenderci il fatto che alla fine della giornata non possiamo ricordare nemmeno una minima percentuale di tutto quello che abbiamo visto, che con buona probabilità saranno solo i messaggi che rispondono ai requisiti delle famose 5 domande della savana.
Perché succede?
Questo accade per due motivi. Innanzitutto, il cervello umano non può assorbire e digerire così tante informazioni, per quanto le possiamo accorciare nei tempi. Non può proprio. Abbiamo accorciato la lunghezza della scrittura, forzato le immagini, caricato di emozioni le storie, ma alla fine si arriva a un limite. In secondo luogo, la super saturazione dei messaggi ha provocato una reazione automatica a tutto quello che non è semplice, chiaro, diretto, ovvero non rispetta i requisiti di quello che gli psicologi chiamano fluidità cognitiva.
Vediamo di cosa si tratta:
Quando leggiamo un messaggio può essere percepito come “facile” da comprendere, oppure “difficile”, e la tensione cognitiva è influenzata dallo “sforzo” che dobbiamo compiere, dove il minor sforzo è associato a “piacere” il maggior sforzo a “fatica e quindi dispiacere”. La fluidità cognitiva porta in modo sperimentalmente dimostrato a maggior buon umore, e il buon umore viene associato alle cose che ci vengono mostrate, anche in relazione a un contenuto che sarebbe razionalmente da rigettare.
Quando ci sembra di comprendere subito tendiamo a credere, mentre quando dobbiamo fare uno sforzo per capire, e facciamo fatica, tendiamo a diventare critici e sospettosi, e iniziamo a spaccare il capello su tutto.
In comunicazione pertanto qualunque cosa si faccia per ridurre la tensione cognitiva è utile.
Per chi scrive post su facebook a favore di aziende, ad esempio, è utile provare a fare un esperimento semplice di due messaggi uguali con due immagini diverse, una molto facile da capire, l’altra astratta e complessa da mettere in relazione al messaggio, e guardate quante maggiori interazioni avrà la prima, in particolare se il messaggio rientra nelle 5 domande della savana.
Poi è importante il design. Non contano solo i messaggi, ma come vengono visualizzati, una regola che vale per mail, post, presentazioni, siti web, manifesti e ogni attività che preveda una visualizzazione. Un buon designer lavora per diminuire lo sforzo cognitivo, e pertanto aumentare il buon umore di chi legge, attraverso la sensazione che comprendere sia facile e gradevole. La semplicità è importante anche per sembrare intelligenti e credibili, al contrario degli insegnamenti di molti professori vecchia maniera, di una società che non esiste più. Oggi non bisogna usare un linguaggio complesso, ma provare sempre con il vocabolario di base compreso da tutti, che basta e avanza. In un articolo del 2001 del “Journal of personality and Social Psycology” si riporta un interessante esperimento che dimostra come parole facili da comprendere evocano un atteggiamento favorevole verso chi le pronuncia, confermate anche da decisioni riguardanti aziende con il nome semplice verso aziende con il nome complicato, e cosi via. Da uno studio infatti condotto in svizzera risulta che nomi più semplici hanno una resa migliore sul breve termine, la prima settimana del collocamento, nel mercato azionario, il che appare ridicolo e assurdo, se non fosse statisticamente vero.
E’ sempre il principio di fluidità cognitiva poi che impone la strategia dell’esposizione per indurre familiarità. Ovvero più pronunciamo un nome, più lo rendiamo consueto, e più un nome, un concetto, un’idea, diventano familiari, più tendiamo a considerare con benevolenza, come dimostrano molti lavori dello psicologo Robert Zajonk, che ha lavorato esattamente su questo concetto.
Pertanto è per motivi di salute mentale che i cervelli umani imparano a ignorare le pubblicità inutili e i discorsi complicati e fumosi dei politici. Il disordine della comunicazione attuale riporta le persone a concentrarsi alle famose 5 domande della savana, e a preferire le persone che mandano risposte a quelle domande, che imparano ad apprezzare, anche se magari propongono concetti che un onesto lavoro di ragionamento rifiuterebbe senza indugio.
C'è una via d'uscita a questa logica?
Le persone non vanno idealizzate, e consiglio a tutti la lettura di quel capolavoro di divulgazione scientifica che è il “gene egoista” di Richard Dawkins.
Ma rincorrere un mondo su questi ritmi che portano a vivere molte vite in contemporanea per riuscire a fare tutto, comprare tutto, e in cui il mercato che aumenta di più è quello degli psicofarmaci, vuol dire cercare uno schianto prima o poi.
Per cui, come individui e società, meglio guardare altre strade, e liberare la propria mente, perché possa tornare a ragionare senza fatica e a vivere la bellezza del confronto, dell’approfondimento, dell’esplorazione di parole nuove e sconosciute. Perché mi piacerebbe fare dei test cognitivi a una persona che ha passato una settimana a camminare, o in barca a vela, o a leggere davanti al fuoco, per verificare la bellezza del ragionare insieme, del fantasticare nuove cose, e idee, per vivere meglio di questo incastrare tutto in ogni vuoto possibile. E le aziende dovrebbero provare a regalare questo tempo e spazio ai propri clienti, questo immaginario, come alcune stanno già facendo, e di cui parlerò in un altro post, perché non vi voglio trattenere di più, anche perché se siete arrivati fin qui, non ho certo bisogno di convincervi. Lo sapete già.