Cosa è giusto dire e cosa no
Le prime volte che parliamo in pubblico ci facciamo una quantità esorbitante di problemi conditi da un bel po’ di emozione. Con l’esperienza, la tensione si affievolisce, tuttavia diventiamo più critici nei nostri confronti.
Se all’inizio, la vera sfida è riuscire a vincere la paura, man mano che pratichiamo “l’arte” del public speaking andiamo sempre più alla ricerca delle nostre, e altrui, reazioni emotive.
In particolare, al netto del fatto che i contenuti da esporre siano effettivamente di valore, col tempo cominciamo a preoccuparci soprattutto del come dirli. In sostanza, vogliamo che il pubblico si porti a casa una sorta “di sentire” che va ben al di là del semplice “ascoltare” delle cose.
Per questo, non necessariamente nell’ordine presentato, prima di ogni mio intervento faccio a me stesso almeno 3 domande, una specie di checklist:
- È opportuno che dica questa o quell’altra cosa? (magari in riferimento a questioni controverse di cui non ho la completa padronanza)
- Questa affermazione ha senso che la dica io? (quando, nel caso di una conferenza con più relatori, rischio di fare “un’invasione di campo” negli argomenti altrui)
- Svelo tutto di un certo ragionamento? (da prendere in considerazione quando è prevista una sessione di domande da parte del pubblico)
Ovviamente, le risposte che mi do non sono sempre uguali e, va detto, capita anche che a consuntivo mi renda conto di essermi sbagliato (sarò più accorto la prossima volta!). Ma l’efficacia di questo stratagemma rimane valido perché mi consente di acquisire sicurezza. In fondo, tutte le volte che diventiamo analitici, non facciamo altro che guardare dritti in faccia agli imprevisti.
Questo metodo mi aiuta anche ad affrontare “sistematicamente” una miriade di faccende quotidiane, dall’invio di una mail alla gestione delle relazioni interpersonali.
Per esempio, nel corso di una discussione (professionale o no) può succedere (e succede) che ognuno rimanga saldamente ancorato alle proprie convinzioni. È arrivati a questo punto che ti devi chiedere: “È opportuno che sottolinei ulteriormente il mio disaccordo o mi impegno a tenere in considerazione anche l’altro punto di vista?”.
In entrambi i casi, gli effetti si riverbereranno inevitabilmente sul futuro. Rimarcare la propria totale contrarietà significa “non lasciare scampo” e alla prossima occasione quella discussione diverrà la base di partenza, anche se l’argomento sarà un altro (è la logica del win-lose che molto spesso si trasforma, a dispetto delle nostre intenzioni, anche in lose-lose), mentre una strategia win-win ha il vantaggio di generare fiducia. Se trasmettiamo fiducia, gli altri saranno più disponibili a concederla a noi.
Riassumendo, non si tratta di rinunciare alle nostre opinioni, ma all’opposto di comprendere anche quelle dei nostri interlocutori. Siccome le parole dette non tornano indietro, la domanda chiave è: “Voglio puntare all’empatia o alla sopraffazione senza possibilità di appello?”.
Pensiamo a un caso estremo, come potrebbe essere la dinamica negoziale con un terrorista che tiene in ostaggio degli innocenti? La trattativa non è incentrata sul “chi ha ragione”, ma su come sviluppare un piano di comprensione reciproca. Ancora una volta, dare fiducia restituisce fiducia.
Il meccanismo è lo stesso del regalo (cosa assai diversa dall’omaggio o dallo stereotipato “gratis”) che genera una dipendenza o, più semplicemente, un clima di reciprocità.
Quotidianamente (e per fortuna) abbiamo a che fare con scenari più tranquilli, ma nonostante ciò le nostre parole (cosa dire, se dirlo, come dirlo) devono fronteggiare relazioni in cui dobbiamo persuadere, influenzare e, ovviamente, negoziare.
Ecco allora che in definitiva le tre domande preliminari convergono verso una sola: “Posso entrare in empatia anche se non vinco o, per altro verso, ammetto la bontà delle opinioni altrui?”.
Certo che sì. L’importante è ascoltare e non interrompere appena noi pensiamo di aver capito le posizioni dell’interlocutore (non c’è nulla di più indisponente), non enfatizzare i suoi punti deboli al solo fine di sferrare il colpo del ko, ma dimostrare di accettarli secondo una prospettiva di sincera comprensione, cogliere la reale portata delle motivazioni a noi avverse.
Il contatto emotivo viene stabilito dalle parole. Quelle più efficaci nascono in egual misura dalla mente e dal cuore: danno calore alla ragione e direzione ai sentimenti.
Articolo originariamente pubblicato su www.sergiogridelli.it