Telefonami tra cent'anni, parleremo di filosofia

Telefonami tra cent'anni, parleremo di filosofia

Non nascondo che mi piacerebbe avere una macchina del tempo per esplorare cosa è successo veramente negli anfratti più bui della nostra storia, ma se dovessi giocarmi solo una possibilità fra andare nel passato o volare nel futuro, senza dubbio sceglierei quest’ultima.

Oggi, tutto cambia al ritmo dell’istantaneità. Le storie non fanno tempo a diventare storie che già altre le sostituiscono senza soluzione di continuità.

Il futuro ci affascina perché non siamo mai riusciti a predirlo con precisione. Ci arzigogoliamo con le profezie di Nostradamus o con quelle dei Maya, per non parlare dei “viaggi” che ci fa fare la fantascienza, pur tuttavia anche la più fervida immaginazione rimane interdetta rispetto a come sarà il mondo quando la tecnologia progetterà ex-novo corpi, cervelli, menti pensanti.

Un secolo fa, i nostri predecessori, così come noi ora, non sapevano un granché del futuro. Certo, potevano supporre che le grandi catastrofi belliche avrebbero lasciato spazio a una specie di rinnovamento dello spirito (purtroppo, in molti casi non è successo nemmeno questo), ma allo stesso modo scommettevano sul fatto che i tratti fondamentali della società umana non sarebbero cambiati di molto.

Per meglio dire, i buoi avrebbero lasciato il passo ai trattori, l’industrializzazione avrebbe accelerato il processo di migrazione verso le grandi città, le persone avrebbero avuto una migliore scolarizzazione. Tutte cose che, con un minimo di visione, non potevano sfuggire agli osservatori più attenti.

In sostanza, la rivoluzione industriale, e con essa quella tecnologica, prefiguravano sì un futuro di nuovi prodotti, ma pur sempre incasellati dentro relazioni sociali vecchie di secoli (la famiglia, lo studio, il lavoro). Tutte “certezze” che allo stato attuale cominciano a sgretolarsi sotto i colpi della bioingegneria, del cyberspazio, delle interfacce neuronali uomo-macchina.

Come sarà il mondo fra cent’anni?

Supposto che spero nella resilienza del nostro piccolo pianeta e nella possibilità che possa continuare a vorticare nel cosmo, il lavoro sarà ancora necessario per vivere? Ci saranno ancora gli eserciti? Le relazioni saranno solo di genere “biologico”?

Nel pormi questi interrogativi, non posso non riflettere su quanto saranno irrilevanti le conoscenze trasmesse dalla scuola agli studenti di oggi. L’attuale modello basato sul trasferimento delle informazioni, con le opportune differenziazioni, non è tanto diverso da quello ottocentesco.

Per molti versi, l’approccio alla “conoscenza del mondo” avviene ancora ignorando l’esistenza della radio, della televisione e, soprattutto, di internet. In questo XXI secolo siamo letteralmente inondati dalle informazioni (vere e false), ma ciò che davvero ci manca sono gli strumenti per una loro accurata messa a fuoco.

Ogni cosa è a portata di clic. Purtroppo, in questa sovrabbondanza tutto quello che è complicato e che richiede uno sforzo cognitivo supplementare, sparisce dai radar mentali per lasciare il posto ai gattini, al pettegolezzo, al complottismo più becero.

Già in questo mondo e, a maggior ragione, in quello che verrà, la scuola non può più permettersi di sprecare tempo e risorse per rimpinzare solo di nozioni il cervello degli studenti. La vera sfida del nostro apparato educativo è quella di insegnare a dare un senso alle informazioni, fornendo gli strumenti per distinguere il massacro di Aleppo da Call of Duty. Per dire.

Il ruolo decisivo della scuola

La scuola si è mai chiesta seriamente quali, fra tutti gli insegnamenti predeterminati, saranno significativi nel prossimo futuro? È vero, non abbiamo idea di come cambierà il mondo e di quali competenze ci sarà bisogno, ma anche solo limitandoci a scrutare distrattamente gli attuali trend tecnologici, possiamo verosimilmente supporre che, solo per fare un esempio, da qui a poco l’intelligenza artificiale ci farà dialogare in tempo reale in tutte le lingue conosciute.

Da tanto tempo (troppo) c’è un dibattito che, è il caso di dirlo, tiene banco. Vale a dire, come superare l’abissale dicotomia fra l’insegnamento tecnico e quello più spiccatamente umanistico. Il ritmo del cambiamento è tale che fa supporre non solo un radicale mutamento della tecnica, ma anche del significato stesso di umanità.

In questo senso, non mi sembra affatto banale l'introduzione dello studio della filosofia in ogni indirizzo scolastico, compresi gli istituti tecnici.

Nel futuro che immagino, l’ingresso “rapido” nel mondo del lavoro (garantito, si fa per dire, dagli istituti professionali e tecnici) non potrà fare perno esclusivamente, o quasi, sul solo sapere “non teorico”.

Le trasformazioni che ci attendono, nel mondo del lavoro in particolar modo, potranno essere affrontate solo con il pensiero critico, la capacità di comunicare, la collaborazione progettuale, la creatività multidisciplinare. Tutte abilità potenziate dal sapere filosofico.

Mi rendo conto che nella situazione scolastica attuale, fra la penuria di carta (da quella igienica a quella per le fotocopie) e i cartoni alle finestre per ripararsi dal freddo, Platone & Co. hanno vita dura.

Tuttavia, l’orizzonte delle nuove generazioni non lascerà più spazio alla stabilità. Sarà un continuo reinventare le identità individuali e collettive.

In questo incessante frullatore di sentimenti, di disillusioni, di speranze, solo la filosofia potrà fornire, quanto meno, un centro di gravità permanente (proprio così) per poter rispondere anche fra cent’anni alla domanda più urgente e complicata di sempre: chi sono?

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