Copiare abusivamente il Codice Sorgente dell'azienda dove si lavora e... commettere 3 reati!
Si potrebbe dire: come copiare abusivamente il Codice Sorgente dall'Azienda per cui si lavora e ... commettere 3 reati: “accesso abusivo a sistema informatico”, “frode informatica” e violazione dell’art. 171-bis della legge sul diritto d’autore.
Con la recentissima sentenza n. 11075 del 13 marzo 2018 la Cassazione Penale si è pronunciata su un caso di copiatura abusiva dei Codici Sorgenti e del Database di un’azienda informatica compiuta da tre dipendenti, poi fuoriusciti dalla società. I codici sorgenti e il database venivano utilizzati al fine di realizzare un programma sostanzialmente identico e con le medesime finalità da parte di una società concorrente presso la quale i tre (ex) dipendenti erano andati a lavorare.
A fronte di una sentenza (del 2015) del GIP presso il Tribunale di Bologna che dichiarava il non luogo a procedere nei confronti degli (ex) dipendenti in relazione ai reati di frode informatica e accesso abusivo a sistema informatico “perché il fatto non sussiste” e di estinzione per intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 171 bis, legge sul diritto d’autore, il Procuratore della Repubblica e la parte civile (l’azienda danneggiata) ricorrevano in Cassazione.
La Suprema Corte, ribaltando la decisione del GIP, ha, in primo luogo, rilevato che le stesse Sezioni Unite, con la recente sentenza n. 41210/2017, hanno dato risposta affermativa al quesito se integri il delitto previsto dall’art. 615-ter, comma 2, n. 1, codice penale (“accesso abusivo a sistema informatico” commesso “con abuso della qualità di operatore del sistema”) la condotta del “soggetto abilitato all’accesso per ragioni d’ufficio che, non violando de condizioni e i limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne oggettivamente l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per scopi e finalità estranei o comunque diversi rispetto a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è attribuita”.
In particolare, precisa la Corte, deve ritenersi sussistente la illiceità penale della condotta del soggetto che abbia effettuato un ingresso nel sistema con fini palesemente contrari agli interessi, anche patrimoniali, del titolare del sistema informatico.
Inoltre, la Cassazione, puntualizza che nel caso di specie vi è stato un “intervento senza diritto su dati contenuti in un sistema informatico e nella estrazione di copia del database e dei codici sorgenti del programma protetto da copyright al fine di utilizzare lo stesso programma per gestire parti dell’attività di una società concorrente in cui coloro che avevano organizzato la copia erano confluiti”.
Tale condotta, pertanto, rientra nella fattispecie del delitto previsto dall’art. 640-ter, codice penale ( “frode informatica”). Norma, questa, che punisce una pluralità di condotte: da un lato quella di chi procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, “alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico”, dall’altra quella, riguardante la vicenda in oggetto, di chi, sempre procurando a sé o altri un ingiusto profitto con altrui danno, intervenga senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico.
Non solo! Il reato di “frode informatica” per la Corte può concorrere con il reato (cioè i due reati possono coesistere, quindi chi li ha commessi risponde di entrambi) di cui all’art. 171-bis, Legge n. 633/1941 (legge sul diritto d’autore). Tale norma sanziona chi “duplica, per trarne profitto, programmi per elaboratore”.
Secondo la Cassazione le due fattispecie, quella di cui all’art. 640-ter c.p. (“frode informatica”) e quella contenuta nell’art. 171-bis, legge sul diritto d’autore, presentano elementi specializzanti di diversa natura. Ciò non permette di ritenere che vi sia alcun tipo di assorbimento e consunzione tra le due e quindi determinano la loro applicazione in concorso.
In conclusione, la Corte ha riconosciuto la fondatezza dei motivi del ricorso del Procuratore della Repubblica. Unico inconveniente (ma non per gli imputati!!): la intervenuta prescrizione dei reati.
Pertanto, la Corte “annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione”.
(Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 19 ottobre 2017 – 13 marzo 2018, n. 11075)