La chiamavano Ansia. Storia di una manager sull’orlo di una crisi di nervi
Ansia, ecco la chiamerò così. E’ un nome di fantasia, ma rende l’idea. Ansia è una manager cinquantenne, lavora nell’area sales di una grande azienda da 20 anni, è brava, è una realizzatrice e una instancabile problem solver, porta sempre i risultati attesi. Ma ha un problema, e indovinate qual è? L’ansia. Quella con la a minuscola, che lei mette a condimento di qualunque sua azione, sia sul lavoro sia nella vita privata.
Organizzare una festa, sistemare un contratto, incassare un’ingiustizia: quando Ansia dà il meglio di sé
Deve (deve?) organizzare la festa di compleanno della figlia? Ansia, perché deve essere perfetta. E se fa un passo falso la figlia la sgrida, lei piange, e poi rimedia con una soluzione ancora migliore. Deve risolvere un problema di contratto con un grosso cliente e i suoi non la supportano? Ansia, poi si attiva, trova le risposte, risolve. “Sei brava, se non ci riesci tu…”. Ha un collega che gioca sporco e che la mette in cattiva luce con il super capo? Ansia, perché si sente sotto accusa e incassa cazziatoni ingiustificati che rasentano il mobbing.
Il loop perfetto: che ruolo giocano i metaprogrammi cognitivi?
Questo metterci “l’ansia” ovunque si esprime anche nei suoi discorsi, nelle parole che usa, nell’approccio ai colleghi, che infatti la bollano come ansiosa: ma – o sarebbe meglio dire grazie a ciò - sanno che su di lei possono contare.
Si attiva, quindi, un loop con retroazione positiva, in cui lei stessa si veste di quello stereotipo fino a sentirlo parte della sua identità.
A questo si aggiungono degli schemi cognitivi automatici, che in PNL si chiamano metaprogrammi. In particolare:
Con questa configurazione “interna”, potete immaginarvi che livello di pressione possa vivere?
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Lo sfondo: una cultura aziendale maschilista e giudicante
Aspettate un attimo, perché manca la ciliegina sulla torta, quella del sistema: la cultura aziendale in cui è immersa è di tipo maschilista e giudicante. Tutti i capi sono uomini, non esistono feedback ma solo accuse e colpevoli, la narrazione segue una semantica della sfida, ci sono sempre e solo vincitori e sconfitti.
Scenari possibili, buone domande e una differenza importante
Vedo Ansia per la prima volta e subito comprendo che faremo del counseling e non del coaching: perché non stiamo parlando di specifici obiettivi di performance, ma di qualcosa di più ampio e meno definito.
Ansia sa bene cosa vorrebbe. Vorrebbe saper gestire i suoi stati emotivi, i suoi pianti, la sua agitazione. Vorrebbe non sentirsi sempre sulla graticola, vorrebbe apparire sicura e assertiva. Vorrebbe stare tranquilla e avere tempo per sé.
Ma tutti questi “obiettivi” sono davvero raggiungibili? O meglio: in che modo questi obiettivi sono compatibili (o incompatibili) con il suo schema di funzionamento? Questa domanda ne porta con sé un’altra: cosa c’è di utile e vantaggioso nell’agire così? Perché se è configurata in questo modo, sicuramente ne otterrà dei benefici secondari, altrimenti avrebbe già cambiato schema.
Siamo di fronte a qualcosa di grosso: ad una eventuale ri-configurazione generale di sé stessa, della sua identità. A cui potrebbe unirsi la scoperta di dover cambiare addirittura contesto lavorativo.
Ha bisogno di orientarsi, di capirsi meglio, di esplorare i nuovi scenari e le implicazioni “sistemiche” che ne conseguirebbero. E sì, tutto questo si chiama counseling.
PS Seguirà una seconda puntata con alcuni spunti di lavoro…
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