Spotlight Effect: l'inutile sforzo di credersi al centro dell’attenzione

Spotlight Effect: l'inutile sforzo di credersi al centro dell’attenzione

Un interessante esperimento ideato da un professore in psicologia americano ha dimostrato la differenza fra ciò che immaginiamo gli altri notino o pensino di noi, e quanto in realtà siamo ininfluenti per il prossimo

Chiamasi volgarmente “rischio da smart working”: consiste nella rassicurante certezza di collegarsi a videoconferenze con capi e colleghi in perfetto ordine. Ma soltanto nella parte visibile, quella che entra nell’inquadratura.

L’incidente, fra ciabatte e pantaloni della tuta ormai sformati dall’uso, sono all’ordine del giorno e in genere scatenano i sorrisi e l’ironia di tutti: nessuno, in realtà, pensa sia necessario indossare anche in casa calze e mocassini in cuoio con le stringhe. Ma qualche volta l’errore può diventare virale, assicurando all’involontario protagonista una figuraccia epocale. O almeno così crede.

È un po’ quella che un anno fa ha bonariamente sfiorato Will Reeve, giornalista nonché figlio di Christopher, l’indimenticato primo “Superman” del cinema, costretto sulla sedia a rotelle per il resto della sua vita dopo un tragico incidente a cavallo nel 1995, e morto d’infarto il 10 ottobre 2004, a soli 52 anni.

Will, 28 anni, è il terzo figlio di Christopher Reeve, avuto dalla seconda moglie, e alla recitazione ha preferito il giornalismo: serissimo e inappuntabile, diventato uno dei volti più amati della rete televisiva “ABC”. All’inizio del lockdown, periodo che ha colpito New York con particolare intensità, Reeve era in collegamento da casa sua con il seguitissimo programma “Good Morning America”: impeccabile, con una giaccia grigio chiaro e una camicia azzurra, e alle spalle una libreria su cui si intravedevano libri, premi, foto e ricordi. Ma non è su quello che gli occhi del regista hanno puntato: per un problema dell’inquadratura, evidentemente calcolata male, Will non si è accorto che quando i sottotitoli sono scomparsi, tutta l’America ha visto che sotto era in mutande.

Ma a parte qualcuno più attento degli altri, buona parte degli americani si è reso conto dell’incidente solo quando la ABC ha diffuso un comunicato stampa di scuse anche a nome del giornalista. A quel punto l’incidente ha fatto il giro dei social, scatenando un mare di ironie ma nessuna accusa: tutti quelli che lavorano da casa hanno peccato allo stesso modo.

Una gaffe che ha attirato l’attenzione di Tom Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University e autore della teoria “dell’effetto luci della ribalta”, che ridotta all’osso suona più o meno così: non disperatevi per una macchia sulla camicia, perché probabilmente non se ne accorgerà nessuno. A parte vostra moglie, ma questo è un altro problema.

Fra tutti gli esperimenti di Gilovich, specializzato in psicologia sociale, processo decisionale ed economia comportamentale, uno realizzato nel 2000 ha lasciato il segno. Per il primo step, il team del professore è partito da una ricerca in cui era necessario individuare il personaggio degli anni ’90 più dimenticato di tutti. A conquistare il poco piacevole podio della ricerca era stato Barry Manilow, artista americano che alla metà degli anni ‘70 aveva avuto il suo quarto d’ora di celebrità con la ballad romantica “Mandy”, per poi finire nel firmamento delle meteore passate ad altre galassie.

All’esperimento - aperto a tutti gli studenti della Cornell - chiesero in molti di partecipare, ma solo ad uno, poco prima di entrare in un’aula dove altri studenti erano impegnati nel compilare un questionario, fu chiesto di indossare una t-shirt con il volto di Manilow stampato davanti. Una manciata di minuti dopo, un collaboratore di Gilovich era entrato richiamando il giovane, spiegandogli che era stato scelto per un altro esperimento. In realtà, gli fu semplicemente chiesto quanti dei presenti, secondo lui, potevano aver notato la maglietta: valutando a spanna gli sguardi e le occhiate ricevute al suo ingresso in aula, il giovane aveva risposto la metà dei presenti, o poco meno. Non era così: interrogati uno per uno, solo il 21% degli studenti aveva notato un volto stampato sulla sua t-shirt, e ancora meno erano quelli che ricordavano il nome del povero Barry Manilow.

È quello che psicologia definisce “spotlight effect”, la sensazione di sovrastima rispetto alla percezione che gli altri hanno di noi: la normale conseguenza del gioco di sponda fra l’essere il centro del proprio mondo e un rumore di fondo appena percettibile nelle vite del prossimo.

In realtà, specifica Gilovich, ognuno di noi sa perfettamente di non essere al centro dell’universo, ma quando ci troviamo ad affrontare qualcosa di atipico, come inciampare per strada o sbattere con testa su un palo della luce, tendiamo inconsciamente a escogitare un rimedio per uscire di scena comunque da vincitori. Uno sforzo inutile, secondo il professore Gilovich: a meno di non rovinare a terra perdendo sangue in abbondanza, non ne importa niente a nessuno.

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