Il punto sui mercati
Dietro front delle Banche Centrali?
La settimana appena conclusa ha visto dare l’inizio alle riunioni delle Banche Centrali per il mese di dicembre. Sono state la Banca Australiana e quella del Canada a dare il verdetto sul possibile dietro front nella politica monetaria. Ricordiamo infatti che l’Australia e il Canada sono stati tra i primi paesi ad alzare i tassi quindi, una loro politica più dovish potrebbe influenzare anche quella delle altre banche centrali.
Nella notte di martedì, la Reserve Bank of Australia ha alzato i tassi di 25 punti base, portandoli a 3.10%, come da attese. Fino a qua tutto in regola se non fosse che durante la conferenza stampa Lowe, il governatore della RBA, sia stato un po’ più hawkish del previsto: i rialzi continueranno in quanto l’inflazione è ancora troppo alta. La Banca Centrale non ha dato riferimenti sul tasso terminale ma ha confermato che i prossimi rialzi dipenderanno dai dati macroeconomici.
Mercoledì è stata, invece, la volta della Bank of Canada ad alzare ulteriormente i tassi. Anche in questo caso, nonostante i 50 punti base di rialzo come da attese (ora a 4.75%), la BoC ha parlato di una politica monetaria più attenta ai dati economici. In futuro i rialzi continueranno ad esserci ma non si conosce a priori l’entità poiché lo stato dell’economia è incerto.
Queste scelte possono essere interpretate come una nuova fase nella politica monetaria. Le Banche Centrali, non avendo dei parametri oggettivi a cui fare riferimento, potrebbero continuare ad alzare i tassi di interesse anche per molto tempo. Nulla, infatti, è stato indicato sul periodo in cui i rialzi (magari anche più bassi dei precedenti) continueranno ad esserci. Tutto dipenderà dai dati. E se i dati non saranno così “positivi” (nel senso che dovranno evidenziare una recessione) come ci si attende? E se l’economia tarderà a rallentare?
Tutte domande molto interessanti a cui i mercati hanno provato a dare una risposta dopo l’ISM Non Manifatturiero americano.
Dati migliori delle attese in America
Dopo diverse settimane di rialzi, principalmente per questioni tecniche di ricoperture, l’indice S&P 500 ha dovuto fare i conti con la realtà: la politica della FED non basta per mandare l’economia in recessione (o forse è solo troppo presto per attendersi già un rallentamento).
L’indice ISM Non Manifatturiero (conosciuto anche come ISM Services PMI) misura lo stato di salute del settore terziario americano. Nella giornata di lunedì il dato macroeconomico è uscito nuovamente sopra le attese. Per la precisione gli analisti lo attendevano a 53.3 (poco sopra il livello 50, al di sotto del quale si parla già di rallentamento del settore). Il dato è uscito a 56.5, non solo più alto delle aspettative ma anche del precedente dato di novembre. In altre parole, l’economia americana è ancora in forza e a nulla sono serviti nove mesi di rialzi dei tassi da parte della FED o un mercato azionario e obbligazionario in perdita del 15% da inizio anno.
Come se non bastasse, anche il PPI (indice dei prezzi alla produzione) ha segnato un rialzo più forte delle attese:
Tale indice è estremamente importante in quanto dà un’indicazione dell’inflazione futura. Si tratta infatti dei prezzi pagati dai produttori per materie prime e forza lavoro. Un loro aumento potrebbe significare che le aziende produttrici torneranno ad alzare i prezzi dei beni finali per non vedersi erodere i margini.
Insieme ai dati sul mercato del lavoro e sui consumi delle famiglie superiori alle attese della scorsa settimana, queste rilevazioni si inseriscono ancora in un contesto di “good news is bad news”. Più i dati usciranno sopra le attese (o comunque positivi) più la FED dovrà fare i conti con la realtà e non potrà permettersi di rallentare la stretta monetaria. Questo i mercati lo sanno bene e, dopo due mesi di furore (+15% dai minimi), gli operatori istituzionali, hedge fund in primis, hanno iniziato a:
Le prospettive sull’inflazione non sono rosee, lo dice la Cina
È pensiero comune ormai che l’inflazione abbia toccato il suo picco a luglio e si trovi in un trend decrescente che la riporterà al target del 2% voluto dalla Federal Reserve. Si stima infatti che per fine 2023 l’inflazione possa tornare verso il 3-4%. Ma sarà effettivamente così? Oggi vogliamo porvi di fronte uno scenario un po’ diverso da quello che potreste leggere sui quotidiani finanziari.
Più volte abbiamo parlato di come la Cina stia superando la sua politica di tolleranza zero nei confronti del Covid. La riapertura totale è attesa per marzo 2023 e alcuni economisti ritengono che possa essere addirittura anticipata. Questa è un’ottima notizia! I mercati finanziari potrebbero prenderla molto bene (e i cinesi pure, visto che non si vedevano rivolte vere e proprie dalla protesta di piazza Tienanmen del 1989). L’indice Nasdaq Golden Dragon China Index è salito di oltre il 70% dai minimi di ottobre! Tutta sulla scia delle riaperture.
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Ora però vogliamo farvi una domanda: siete sicuri che a livello economico sia un bene, in questo momento? Cerchiamo di fare insieme un ragionamento.
Di base, la risposta dovrebbe essere sì: ciò che sta mettendo in difficoltà il mondo intero (a livello di produzione di beni, di offerta) sono i continui lock-down in Cina. Inutile prenderci in giro, la Cina è la fabbrica mondiale per molti beni e un blocco delle loro aziende è in grado di ridurre di molto l’offerta aggregata di beni.
Così, se il governo cinese smettesse di imporre i lock-down, potrebbe essere un bene a livello globale in quanto si tornerebbe a produrre a livelli serrati.
Quindi, qual è il “ma…”? Prestate attenzione alla regola che vige in questo momento di “good news is bad news” (e viceversa). La chiusura della Cina ha avuto l’effetto, fino ad ora, di mettere un coperchio all’economia mondiale, permettendo quindi anche all’inflazione di rimanere sotto controllo. I dati cinesi, infatti, non possono non essere considerati: oltre alla produzione, anche i consumi sono crollati. In Cina, ad esempio, erano soliti partire 14.000 voli al giorno. La media odierna è di soli 2.800 voli!
Ora, nonostante questo “coperchio” i dati macro americani stanno continuando ad uscire sopra le attese. Ma cosa succederebbe se la Cina tornasse alla normalità e riprendesse a viaggiare e consumare? Si assisterebbe ad un aumento della domanda aggregata che si ripercuoterebbe sull’andamento dei prezzi. In pratica verrebbe tolto il “cap” di cui sopra e le politiche della FED potrebbero non essere più sufficienti a tenere a bada l’inflazione.
I nostri sono ovviamente solo scenari. Potrebbe essere che l’aumento di produzione sia sufficiente a coprire quello dei consumi derivanti dalle riaperture. Tuttavia, un investitore e, soprattutto, una Banca Centrale che si rispetti non può non prendere in considerazione anche lo scenario peggiore per poter gestire il rischio nel caso in cui capiti!
Il probabile rischio del dollaro troppo forte
Concludiamo questa newsletter parlando di un report emesso dalla Bank of International Settlement. Ricordiamo che la BIS, o Banca dei regolamenti internazionali, si occupa di supportare le Banche Centrali mondiali e di funzionare da garante nei pagamenti internazionali. Uno degli incarichi più importanti è quello di tenere sotto controllo i contratti derivati stipulati da parte degli investitori istituzionali a copertura del rischio cambio.
Nel corso della settimana la BIS ha messo in evidenza l’esistenza di una enorme mole di debito “nascosto”, pari a circa 60 trilioni di dollari (o 60 mila miliardi!!!), due volte e mezzo il debito USA e 14% della somma di tutti gli asset finanziari a livello globale. Si tratta di un valore più elevato di quello che ha alimentato la crisi del 2008.
Visto l’argomento estremamente delicato per la finanza mondiale, nonostante sia molto complesso, cercheremo di spiegarlo nel modo più semplice possibile.
Si pensi ad un investitore europeo che vuole acquistare strumenti americani. Per farlo, dovrà prendere una scelta circa il rischio cambio. Possiamo tranquillamente affermare che gli istituzionali sono meticolosi nel gestire il rischio e se decidono di operare sui tassi di interesse il rischio cambio lo coprono sempre (un rischio alla volta).
Bene, poniamo che un fondo pensione europeo decida di investire in Treasury americani poiché i tassi sono più elevati. Nel farlo, il rischio cambio verrà coperto con contratti derivati di tipo forex swap o forward. Al di là della tecnicalità del contratto in sé, basti sapere che essi permettono di comprare e vendere dollari ad una data futura e non sono quotati (OTC - Over the Counter). In altre parole, vengono stipulati di volta in volta e non vengono registrati a bilancio!
Ricapitolando quindi, il fondo pensione europeo avrà due operazioni in pancia: quella relativa all’acquisto di dollari per le obbligazioni americane e quella del contratto derivato con cui il fondo si impegna a vendere dollari a scadenza per l’ammontare pattuito. Il problema sorge per questa seconda esposizione, essa non viene contabilizzata con la cifra effettiva che si dovrà consegnare alla scadenza del contratto.
Ora, tutto funzionerebbe e anche molto bene se gli investitori lavorassero con la diligenza del buon padre di famiglia e stipulassero un contratto derivato di pari durata dell’obbligazione che dovrebbero coprire (si utilizzano i dollari dell’obbligazione per onorare il derivato). Il punto è che, a causa del dollaro forte, il costo della copertura è molto elevato. Di conseguenza, i fondi hanno iniziato a coprire obbligazioni decennali con derivati a 1 o 2 anni. Ma cosa succederà tra due anni quando il fondo dovrà consegnare i dollari e non li avrà? Ci saranno due soluzioni:
Il problema diventa ancora maggiore a mano a mano che il dollaro si apprezza in quanto la cifra da consegnare alla scadenza del contratto aumenta.
E indovinate di chi è parte della “colpa”? Della Federal Reserve, ovviamente. La FED dovrà prestare molta attenzione all’apprezzamento del dollaro nei prossimi mesi, pena la nascita di una scintilla molto pericolosa per la prossima crisi finanziaria (ben peggiore di quella economica!).