Cheese!
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Avete fatto caso a una cosa? I ritratti fotografici, da quando esistono, mostravano dei volti normalmente più brutti del volto originale: “guarda! Sembro un galeotto!”. L’arte della naturalezza e del sorriso davanti alla fotocamera era rarissima.
Se prendiamo dalla scatola le foto scolastiche dei nostri tempi ci viene da ridere per quanto eravamo brutti e con espressioni tristi o imbarazzate. Una delle regole possibili, dire “cheese”, non funzionava mai perché non si tratta di tirare i muscoli al lato della bocca. Le carte di identità avevano foto segnaletiche da questura. Oggi se scorrete Linkedin trovate ritratti con bei sorrisi, e posture rassicuranti sulla salute fisica e mentale del fotografato. I nativi digitali sono anche nativi dell’immagine euforica di sé nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Il ragazzino con il ciuffo esagerato perde molto più tempo della sua giornata in cameretta a guardarsi allo specchio e farsi i selfie, di quanto avesse fatto in tutta la sua vita Elvis Presley. Altrettanto fa la ragazzina provando l’effetto di un rossetto e di un broncio studiato meticolosamente più di Brigitte Bardot. Che tenerezza, sono ragazzi. L’effetto è che se all’uscita di un’aula propongo una foto di gruppo.. buona la prima! Sono tutti fantastici. Mai successo da Nadar alla comparsa dello smartphone.
Scorrere Linkedin è scorrere migliaia di foto di facce che comunicano ottimismo, energia, sicurezza, passione. Sia in forma di ritratto individuale sia di selfie di piccoli gruppi, sia di foto di grandi gruppi dove non riesci a trovare, come succedeva nelle foto scolastiche, quello un po’introverso e cupo, la bruttina, il buffoncello, la contestatrice, il ragazzo di paese e la ragazza di città. E le foto si moltiplicano: finito un corso, una riunione, un team building. La foto va in rete e immediatamente verranno gli inservienti a levare i post-it dalla lavagna. Le facce dicono: “quanto è stato utile!”, “Coinvolgente!”, “Appassionante!”, “Divertente!”. “mi ha cambiato la vita!”. Ma anche: “quanto sono stato bravo!” “Quanto sono stati bravi quelli del mio grande team!”, “Quanto è stato bravo il nostro trainer!”, “il nostro capo!”, “Il nostro consulente!”
La quantità di foto del genere cresce esponenzialmente ma si avvicina a zero la probabilità che ci sia un individuo fotografato che con la faccia esprima: “mi sono annoiato”, “non ho capito cosa si volesse fare”, “sono cose inutili”, “ci sono state un sacco di mezze verità o bugie”. L’esercizio continuo a mettersi in posa, consente di downloadare rapidamente e senza errori dal sistema nervoso lo schema muscolare che chiameremo “cheese”.
“Cheese”, riassume alcuni messaggi euforici: “sono una persona socievole che pensa positivo e che ognuno vorrebbe per collega, per collaboratrice, per boss”. Si diventa così bravi in questa interpretazione teatrale perché qualcuno ci ha instillato nel profondo la convinzione che è meglio fare così.
E quando siamo ai primi anni della carriera arriviamo a crederci veramente. Più tardi lo faremo perché così si deve fare. Più tardi ancora quel sorriso può diventare un ghigno grottesco. Il sorriso euforico rappresenta spesso uno spazio di scambio di fiducia con la propria organizzazione e l’attesa che il sorriso sarà sempre ricambiato. Più avanti nella carriera si scopre che nessuna azienda ha davvero riconoscenza e tanto meno amore per nessuno. Se ti ha sorriso era un sorriso più falso del tuo.
Ho smesso di fare il formatore quando non sono stato più in grado di passare illusori messaggi euforizzanti. Quando ho scoperto che il 99% dei post di Linkedin vuole essere edificante, enfatico, euforizzante, inspirational. Dovrei commentare come un troll ad ogni post: “tutte cazzate!, “ Non ti illudere, non sei stato particolarmente bravo!”; “La tua vita non è cambiata di una virgola”. “ti hanno preso per il c***”.
Non campo più di formazione manageriale, almeno quella di un certo tipo, e quindi posso dirlo senza rischi. Per me la dialettica tra società dell’euforia e società del rischio assume un carattere piacevolmente teorico.